Il 23 ottobre Andrea Montanari ha scritto su Milano Finanza un articolo estremamente interessante (rilanciato da Andrea Arrigo Panato). Sostanzialmente siamo di fronte alla storia di un grattacapo: Unilever non riesce a tamponare la ferita, Grom perde soldi. Non sono bastati la forte razionalizzazione del numero di gelaterie e l’integrazione con i sistemi della multinazionale. Eppure tutto sembrava preannunciare una storia felice, una di quelle che vengono spesso raccontate come best practice. Grom infatti aveva (ha):
- Un brand noto;
- Una struttura manageriale consolidata, rinforzata dalla esperienza di Unilever;
- Un prodotto di qualità;
- Capitale e risorse finanzarie, sempre grazie a Unilever;
- Un modello potenzialmente in grado di scalare, diverso dal gelataio artigianale, spinto dalla multinazionale che decise di scommetterci sopra.
La pandemia avrà sicuramente pesato ma la sensazione è le ragioni della delusione stiano altrove.. Proviamo a mettere tre carichi sul tavolo, ispirati dall’articolo:
L’integrazione di un “progetto culturale”, prima che economico, come quello di Grom, non può partire da numeri, finanza e management: deve prima di tutto essere giocato sui valori e sulla valorizzazione della spinta imprenditoriale iniziale in seno alla multinazionale;
Crescere non è un gioco: la dimensione finanziaria di un progetto di scaling up come quello messo in piedi da Grom ancora prima dell’acquisizione va valutata con attenzione o rischia di zavorrare il progetto. Anche se Grom è una piccolissima porzione del gruppo Unilever, non può immaginarsi come un giocattolo costoso, tanto più che pure il brand sembra essersi un po’ annacquato e non sembra creare un effetto “alone” importante per il sistema Unilever;
L’integrazione non va solo annunciata: deve succedere, e qui pare che ci si sia incagliati.
Unilever ha tenuto nel limbo Grom, non valorizzandola spin-off nè facendone un plugin capace di trasmettere le sue peculiarità al resto del gruppo. I tentativi sono sotto gli occhi di tutti: prodotti a brand Grom nei frigoriferi dei bar che vendono Algida per impattare sul pricing, entrata in GDO. Un utilizzo un po’ timido di un capitale di marca – e pure di un modo di pensare a qualità che scala.
Osservare, è ovvio, non ci autorizza a giudicare, tanto più che sappiamo solo da fuori e tramite stampa. La sensazione però è di essere di fronte ad un problema non risolto per assenza della grinta “del paròn” c: probabilmente “Bepi”, re della frutta di Solesino (PD) che transa svariati milioni di euro la risolverebbe così:
- decisione immediata tra formato plugin per sfruttare gli asset di brand e dismissione delle zavorre tecnologiche, produttive e soprattutto dei punti retail oppure valorizzazione degli stessi con la ripresa del piano di crescita per sfruttare la leva e la scala;
- Responsabilizzazione di un manager – imprenditore, che per questo modello risulta fondamentale;
- Piano di integrazione o non integrazione nel portafoglio prodotti, tecnologie, servizi a tre anni.
Ripetiamo: è pieno lì fuori di guru che danno ricette e soluzioni senza contestualizzare né considerare che le organizzazioni non rispondono a leggi fisiche ma interagiscono con il contesto e sono piene di donne e uomini capricciosi e allo stesso tempo volonterosi e geniali. A noi interessa continuare a guardare da questa finestra che ci offre la vicenda Grom/Unilever perché racconta di quanto possa essere complicato proiettare un made in Italy di qualità e di valori su dimensioni e ambizioni più grandi. Più in generale, crediamo che il futuro industriale di questo paese passi dalla sintesi tra prodotti di nicchia e necessità di scalare: sintesi possibile?
1 commento
Daniele · Novembre 4, 2021 alle 8:24 am
Bravi. Bis.