Ad inizio di giugno si è tenuta a Dublino la 7′ conferenza mondiale di Geografia Economica. L’evento, che ha portato nella capitale irlandese circa 600 economisti e geografi da tutto il mondo, ha preso in rassegna alcuni dei principali dossier economici del momento, dalle tensioni geopolitiche in Est Europa alla riconfigurazione delle catene del valore globali. Tuttavia, tra i vari temi dibattuti, uno in particolare ha occupato una posizione di rilievo nei vari momenti di confronto: la crescente disuguaglianza economica within country.
Si tratta di un fenomeno oggi riscontrabile sia nelle maggiori economie mondiali (USA, UK, Francia, Italia, Canada) sia nei principali paesi in via di sviluppo, come Cina e India. Alimentata dalla polarizzazione geografica dell’innovazione – in parte sostenuta dalle tesi economiche elaborate nell’ultimo decennio da influenti accademici mondali come Enrico Moretti della University of California Berkeley in “The New Geography of Jobs” e Ed Glaser di Harvard in “Triumph of the City” – la disuguaglianza economica within country è oggi ritenuta la causa principale dell’ascesa dei movimenti populisti in tutto il mondo.
Come ben spiegato dall’economista della London School of Economics Andres Rodrigues-Pose, l’accentramento di finanza, talenti e innovazione in pochi luoghi del mondo – Silicon Valley, New York e Boston in USA, Londra in UK, Milano in Italia e Parigi in Francia – è stata accompagnata dal progressivo deterioramento economico della maggior parte delle provincie industriali di quelli stessi paesi. Ed è proprio in questi luoghi, definiti left behind places, che si concentra oggi il voto di populista e di protesta contro il cosiddetto sistema e le élite.
Questo fenomeno è facilmente osservabile in Italia, dove Milano è divenuta negli ultimi dieci anni the place to be per chiunque voglia lavorare nei cosiddetti settori ad alto valore aggiunto, come la finanza, il retail, il design e la distribuzione. Ma perché la crescita di Milano e di altre cosiddette “superstar city” dovrebbe rappresentare un grattacapo per gli economisti mondiali?
Nonostante il principio statistico secondo il quale “correlation is not causation”, è difficile non vedere come, all’interno di un paese in stagnazione economica da diversi anni, la crescita di Milano è avvenuta anche a discapito di una serie di altre città italiane. Due evidenze su tutte:
- Gli HQ o le funzioni ad alto valore aggiunto di svariate imprese italiane (e.g. Generali, Golden Goose, Luxottica) si sono spostate nell’ultimo decennio a Milano, impoverendo inevitabilmente i territori in cui sono cresciute e si sono sviluppate;
- l’esodo dei cervelli dall’Italia all’estero è oggi accompagnato da un flusso di talenti da fuori a dentro Milano. E non parliamo solamente del flusso Sud Italia-Milano che tanta narrativa ha prodotto negli anni ma, sempre più, di un flusso che vede nel Veneto e nel Piemonte luoghi di partenza di giovani menti brillanti (oggi il Veneto attira meno studenti da fuori regione rispetto a quelli che lascia partire)
La crescita di un nucleo ristretto di “superstar city” è oggi difficile da arginare, né probabilmente rappresenterebbe una strategia economica di successo nel medio-lungo periodo. Sono proprio questi centri, infatti, a garantire la crescita nella cosiddetta economia della conoscenza dei paesi in cui sono ubicati. In un paese, come l’Italia, dove la manifattura pesa ‘solamente’ il 25% del PIL annuo, ulteriori investimenti in attività produttive in luoghi secondari rischierebbe infatti di essere una strategia miope e controproducente per lo sviluppo economico futuro del paese.
Quindi che fare? Come cambiare il destino delle province italiane alla presa con un’emorragia di talenti e investimenti a discapito della crescita di pochi grandi luoghi dell’innovazione? Nonostante gli economisti mondiali accettino ancora poco volentieri la teoria secondo cui la crescita di Milano sia la causa del declino di Torino o della stagnazione trentennale dell’economia veneta, ci pare evidente che il modello economico delle province vada aggiornato, se non addirittura ripensato tout court. La sensazione è che uno spazio di “aggiornamento” dei poli locali esista, un modello che possa vedere aziende pilota (pensiamo a Unifarco a Belluno e FAAC a Bologna a titolo di esempio) aggregare dei nuovi distretti produttivi connessi con le “superstar city”. Una connessione che sdogani ed accetti la path dependency nei confronti della città pilota sui temi di mercato (marketing, sales) ma lasci nei poli locali R&D e produzione.
È un passaggio delicato, certamente non indolore, e che in molti casi difficilmente sarà completato con successo. Ma è doveroso iniziare a interrogarsi sul destino delle nostre città medie, alle prese con un settore industriale in contrazione e con un’economia dell’innovazione che ancora stenta a prendere forma. È il tempo di superare la faziosa dicotomia tra produzione e startup e tra pro-Milano vs. anti-Milano. Il puzzle è di difficile lettura, ma per una volta sembriamo essere tutti d’accordo: sarà questo il grande grattacapo economico dei prossimi anni.
Fonte immagini: Paolobon, opera propria (https://it.wikipedia.org/wiki/CityLife#/media/File:Veduta_delle_tre_torri_del_quartiere_Citylife_a_Milano.jpg)
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