Si respira un’aria diversa a Parigi e a Roma a metà marzo. Non è soltanto una differenza climatica. È un’aria più profonda, che racconta della proiezione delle due capitali che abbiamo visitato nei giorni scorsi. Da un lato la capitale francese, con le sue contraddizioni attuali, il suo fascino istituzionale e il suo tentativo di immaginarsi diversa pur non rinnegando il suo glamour e il suo fascino secolare. Dall’altro Roma, espressione più autentica dell’Italianità: città compiaciuta nella sua storia millenaria, adagiata nel suo fascino seducente e quasi del tutto disinteressata al suo futuro. Roma è un equilibrista, autentica come Napoli ma anche in parte centrica per il business: le “aziende stato” e lo Stato stanno qui, e piaccia o meno se vuoi parlare con Telecom e tante altre vai a Roma. 

È questa la restituzione più viva che ci lasciano due delle capitali più importanti in Europa. Sono città complesse, che ci aiutano a decodificare uno dei libri più importanti e difficili mai scritti in ambito economico, “Why Nations Fail”. Le nazioni falliscono perché hanno delle istituzioni non all’altezza, perché diventano estrattive (quando riescono) e smettono di essere produttive. È la dicotomia tra il modello dei makers e quello dei takers, concetto economico che si applica molto efficacemente anche alle città. Roma diventa taker, forse lo è sempre stata, imprigionata dal suo modello di ‘economia estrattiva’ che si basa su un semplice assunto: sfruttare economicamente la ricchezza culturale, artistica e urbanistica che la storia ha lasciato in eredità. Come Venezia, in parte come Firenze. Il turismo è il nostro ‘oil’, certo, ma si corre il rischio di farlo diventare una trappola, proprio come lo è diventato il petrolio nei Paesi del Golfo. È un modello molto italiano, particolarmente votato all’autoreferenzialità e che smette di preoccuparsi del futuro. Si vivacchia, non si sta poi così male. E dunque non si investe più nella creazione di quegli asset produttivi che sono alla base del vantaggio competitivo dei luoghi. Scuola, infrastrutture, nuove imprese.

Magari Parigi finirà per soffocare di burocrazia e di bassa produttività, ma ci pare provi almeno a disegnare un futuro che vada aldilà della sua eredità storica. Sono gli investimenti di Macron nell’ecosistema digitale in città, sono i grandi brand della moda che tentano di fare cultura a partire dal lusso. Sono le business school francesi, oggi tra le più attive al mondo in termini di crescita e internazionalizzazione. Si dirà che anche a Roma qualcosa si muove, come ad esempio il Venture Capital di Cassa Depositi e Prestiti, ma ci sembra ancora troppo poco. Troppo poco quanto meno per giocare la partita delle altre grandi città Alpha mondiali, come Parigi appunto, o come la stessa Milano.

Nel 1995 Régis Debray scriveva “contro Venezia” disegnando i tratti di una città che solitamente noi definiamo al massimo sorniona. L’attacco alla perla lagunare è duro, in contrapposizione con l’autenticità di Napoli Debray spara a zero su una città divenuta teatro abitata cittadini divenuti attori. La preoccupazione non condivisa ma in astratto condivisibile è che lo step successivo alla città estrattiva sia la città teatro, un panottico svuotato in cui il turista è secondino ma la città diviene galera priva di un sistema di ricambio di ossigeno e di conseguenza priva di un ecosistema vivente. Perché se Rovigo no, non è detto che Venezia si. È bello scoprire che l’Università è uno dei pochi asset sistemici che possono certificare la vita o la morte di una città, o magari il passaggio ad uno degli step di cui sopra.

La priorità per chi disegna futuri e presenti a livello politico non può che essere il design della città. Un vero e proprio Business Plan che impari dalle dinamiche aziendali quello che non può mancare, soprattutto in un paese che per storia e morfologia non può essere trattato con regole standard.

Categorie: Pensieri

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