Il Covid-19, come tutti i grandi avvenimenti capaci di imprimere accelerazioni e cambiamenti di rotta all’evoluzione sociale, ha avuto una “geografia” via più ampia e articolata di quello che comunemente si potrebbe credere. Osservando la diffusione geografica del virus, non lineare, colpisce la velocità di propagazione e la letalità del Covid-19 nei grandi centri metropolitani mondiali. Secondo The Economist, New York ha registrato il 19% del totale dei decessi da Covid-19 in America, nonostante ospiti solamente il 3% della popolazione domestica; durante il picco della pandemia in Italia (Marzo-Aprile 2020), il 50% dei nuovi contagi e decessi provenivano dalla Lombardia, con Milano a giocare tristemente il ruolo di capofila regionale. Stessa storia per l’Inghilterra, dove Londra è presto diventata il volano dei contagi domestici, e per la Spagna, dove Madrid e Barcellona hanno distanziato il resto del paese per velocità di trasmissione del virus. La densità demografica delle città alpha offre certamente una valida spiegazione della peculiare e sinistra geografia della pandemia. Ma non basta. Esistono ulteriori elementi da tenere in considerazione per una corretta lettura del fenomeno, come l’accentramento delle risorse materiali ed immateriali nei grandi hub economici del mondo e la connettività che li collega.

Oltre alla rapida diffusione del virus nei grandi spazi metropolitani globali, un secondo fenomeno che sta fortemente condizionando la vita delle città alpha nell’epoca della pandemia è il loro svuotamento. Probabilmente temporaneo, s’intenda, ma pur sempre svuotamento. Abilitati dalla rapida e pervasiva diffusione del lavoro da remoto, milioni di professionisti e studenti nel mondo hanno smesso di frequentare negli ultimi mesi i grandi centri della conoscenza globale. Una immediata conseguenza di questo fenomeno è proprio lo svuotamento delle downtown di città come Milano, Londra e New York e la fuga di migliaia di talenti verso luoghi periferici, siano questi la città d’origine o la seconda casa al mare o in montagna. A Dublino, ad esempio, mancano oggi all’appello più di 20.000 professionisti impiegati nelle multinazionali del tech che hanno base in città. Da Google a Facebook e da Airbnb e Linkedin. Venendo meno la presenza fisica di una moltitudine di pendolari e di professionisti residenti in loco, crolla una parte cospicua dell’economia urbana delle città alpha. Nel breve termine assistiamo alla contrazione economica di negozi, hotel e ristoranti; nel medio periodo toccherà invece al settore immobiliare, ambito quest’ultimo che ha particolarmente beneficiato dell’agglomerazione economica in queste città. È a rischio la sostenibilità economica delle città fino a poco fa “star” della geografia economica mondiale, e si capisce dal dibattersi e dagli allarmi dei sindaci: da Beppe Sala a Boris Johnson, sono sempre più frequenti gli appelli a supporto del ritorno del lavoro in città, a testimonianza della crescente preoccupazione nella classe dirigente e negli stakeholder di questi hub metropolitani.

Atene piange, certo, ma non sembra che Sparta se la possa ridere tranquilla. Se da un lato i principali centri metropolitani mondiali hanno dovuto affrontare una crisi economico-sanitaria tanto improvvisa quanto impetuosa, dall’altro, abbiamo assistito con un certo stupore al generale immobilismo delle città secondarie: una quasi totale assenza di un disegno, di un’idea o persino di un dibattito politico ed economico che puntino a recuperare il ritardo di competitività accumulato dalle città secondarie negli ultimi vent’anni. Il temporaneo svuotamento delle città alpha rappresenta infatti un’occasione irripetibile per una grande parte di città minori che sono rimaste escluse dai grandi circuiti dell’innovazione e dell’economia della conoscenza. L’occasione è quella di ri-bilanciare l’eccessivo accentramento di risorse e asset in pochi attrattori globali attraverso una più equa distribuzione geografica. Questa finestra di opportunità andrebbe colta attraverso il confronto tra i vari attori operanti a livello locale: politica e amministrazioni locali, università e centri di formazione, imprese private. Lo sforzo comune deve essere necessariamente orientato ad attrarre e trattenere talenti e risorse in uscita dalle capitali mondiali ed offrire loro delle condizioni di lavoro e di vita che difficilmente troverebbero nelle città alpha. Dalla qualità della vita al minor costo degli immobili, esistono diverse leve sulle quali costruire una nuova narrativa per le città secondarie. Servono un disegno e uno sforzo comune, serve saper cogliere l’eccezionalità e la magnitudo dell’opportunità che oggi si presenta ai centri urbani secondari, bisogna individuare chiaramente per ogni città “minore” individuare specifiche critiche d’intervento. Dal potenziamento delle infrastrutture tecnologiche a quelle logistiche e dagli investimenti in attività culturali a quelle di svago, sono molteplici gli ambiti verso i quali andrebbero orientati investimenti e delle nuove politiche di sviluppo.

Pensando agli ambiti d’intervento, tre dimensioni sono da privilegiare:

  • Educazione;
  • Svago;
  • Lavoro.

Prendete Rovigo, tipica città italiana che nel post-covid potrà andare verso un futuro da possibile “beta” o “gamma” city (provincia, non periferia come dice Paolo Manfredi)
o rassegnarsi a rimanere provincia cronica. Mentre ci si straccia le vesti per i primi 10 licenziati da Amazon nel polo logistico aperto da poco, il Festival Wallabe ha fatto il pieno e mostrato una possibile nuova città. Prendete Groningen: chi ci andrebbe? Magari pochi qui, tuttavia è la città con la parete di arrampicata più grande del mondo e ci va a vivere chi ama una buona vita, connessioni e, appunto, scalare. O pensate a Lucca e la kermesse Lucca Comics.

Insomma, si può pensare di giocare una partita di ridefinizione delle città fino ad ora secondarie: nuove narrative e un disegno di spazi urbani imperniati su picchi identitari e su un perché. Perché dovrei starci? Che c’è per me? La pandemia offre delle opportunità: turistiche, perché il nuovo turismo che uscirà da questa situazione cercherà destinazioni nuove, non necessariamente stra-affollate, luoghi nei quali ritrovare genuinità; economiche, perché ci pare che molti expat brillanti abbiano voglia di tornare a casa e magari continuare a lavorare da remoto per le loro società ma allo stesso tempo favorire la crescita quartieri in cui sono cresciuti.

Categorie: Pensieri

1 commento

Riccardo Dalla Torre · Ottobre 12, 2020 alle 8:46 am

Tema interessantissimo. Penso però ad un paio di ostacoli. Il primo: le tempistiche. Speriamo tutti che fra 6-12 mesi al massimo la pandemia sia superata e quindi difficilmente si pianificano interventi che rischiano di essere già superati appena conclusi. Eppure lavorare sui centri minori avrebbe senso lo stesso, anche solo per recuperare il gap di attrattività. Secondo: gli strumenti e le idee. Non ci sono ricette magiche, né soluzioni valide ovunque, né risorse dedicate. Ciò vuol dire che i progetti funzioneranno solo dove si lavorerà su soluzioni sartoriali. E quindi servono idee e condivisione locale. Ma almeno alcuni territori ci devono provare.

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