La copertina dell’Economist di settimana scorsa titolava “The brutal reality of dealing with China”, uno statement forte che non ha bisogno di traduzioni o interpretazioni. La lettura dell’editoriale della stessa rivista trasmette un senso di disagio e di angoscia e ci rende pienamente consapevoli di quanto il mondo occidentale sia diventato economicamente dipendente dalla Cina. Dai computer americani alle auto tedesche, una parte considerevole delle filiere di fornitura a trazione occidentale è in realtà nelle mani di imprese di trasformazione asiatiche. Nulla di nuovo, qualcuno di voi penserà. Ciò che è nuovo, secondo noi, è la presa di coscienza di questi giorni di quanto ingombrante sia diventato questo problema. Il blocco del super cargo Evergreen nello stretto di Suez sta paralizzando metà economia globale con una serie di ripercussioni che stanno già influenzando le nostre attività economiche quotidiane. Alcuni numeri, giusto per capirci:
- Il 12% del commercio internazionale passa per lo stretto di Suez
- il fermo dell’Evergreen sta costando all’economia globale circa 400 milioni di dollari l’ora
- il prezzo del greggio è già aumentato di 6 punti percentuali
Ciò che questi numeri ancora non raccontano, tuttavia, è l’impatto che l’incidente di Suez avrà sui sistemi produttivi occidentali. Se ne riparlerà non appena le scorte a magazzino scenderanno e si renderanno necessari nuovi approvvigionamenti. Le conseguenze sono piuttosto facili da leggere:
- aumento del costo di input intermedi con inevitabile aumento del prezzo dei prodotti finiti
- possibile blocco di alcune filiere produttive occidentali
- limiti alle esportazioni sia a causa dei colli di bottiglia nelle filiere che per la paralisi della logistica globale (i container non viaggiano mai vuoti)
Insomma, hai voglia a far ‘la guerra’ alla Cina se poi questi controllano il rubinetto di un pezzo della tua capacità industriale. La dipendenza occidentale dalla grande fabbrica del mondo è un problema evidente e ingombrante e che non può essere risolto attraverso il richiamo a strategie di ‘reshoring’ (rientro della produzione in Occidente, Italia inclusa) o alla nuova moda del ‘decoupling’ (lo sdoppiamento delle filiere globali attraverso la creazione di una filiera di approvvigionamento alternativa a quella asiatica). Nel medio-lungo periodo ‘reshoring’ e ‘decoupling’ potrebbero funzionare, certo, ma sono due concetti difficili da applicare per le imprese e che portano con sé una serie di complessità e di caveat importanti. Su tutti:
- una parte rilevante della produzione che negli ultimi vent’anni si è trasferita da Occidente a Oriente si è portata con sé competenze e tecnologie che oggi nel ‘Nord’ del mondo non dominiamo più (abbiamo pubblicato un’analisi su questo tema qualche anno fa, anticipando un problema oggi pervasivo)
- la produzione asiatica è dunque sempre più ‘sticky’, viscosa, ed è difficile da impacchettare e spostare a piacimento in giro per il mondo
- esiste infine un problema di efficienza e di costi: tornare a produrre da noi potrebbe anche essere fattibile ma sarebbe probabilmente antieconomico, almeno nel breve periodo. Sarete disposti a tornare a pagare un premium price per prodotti commodity?
Sono questi solo alcuni dei motivi per cui storciamo il naso quando leggiamo le tesi di colleghi economisti e analisti di business che predicano il verbo del rientro della produzione in Occidente. Spesso, lasciateci togliere un sassolino dalla scarpa, questo pensiero viene articolato da chi di impresa, filiere e logistica sa poco e le mani se le sporca al più con l’inchiostro. Insomma, come vi abbiamo abituato in questo spazio, siamo antagonisti da sempre alle ricette ‘one-size-fit-all’ e alle facili soluzioni calate acriticamente dall’alto. E in questo recente dibattito di facili soluzioni e business cliché ne abbiamo a bisogna.
Il blocco del Canale di Suez ci sta offrendo la possibilità di tornare ad affrontare una questione che negli ultimi anni è diventata prioritaria nella sicurezza nazionale degli Stati Uniti e del blocco Europeo. Iniziare a parlarne con pragmatismo ed evidenze alla mano ci sembra il primo passo da muovere in questo complicato scacchiere globale.
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