La mia nonna usava il termine “venire via rabbioso” per indicare la fuga più o meno voluta da un luogo, pervasi da un nervosismo vago e dall’origine incerta. Mi accade ogni volta che lascio Milano: Milano oggi è tanto, viaggia veloce, lasciarla ti fa temere di poter perdere qualcosa. Non mi accade invece in Veneto, nelle Marche, nell’Italia del made in Italy, location delle storie –in fondo due versioni della stessa storia– che vi racconto. Due storie di aziende nate nei territori del know-how, del saper fare manifatturiero, del Made in Italy. Nel primo caso casalinghi e oggettistica di design, nel secondo pavimenti in legno.

In un giovedì di riunioni e macchina ho maturato una sensazione chiara, cristallina: il mondo del casalingo di alta media gamma non se la passa bene. La produzione in loco, la creatività e il design non bastano più. Non che gli ingredienti di una volta, creatività, design e “made in” non siano differenzianti. Tutt’altro, lo sono ancora. Siamo “noi” a non far la differenza, a non essere più interessanti. Proprio come Tesla che rischia di vedersi soffiare dalla prima Audi E-Tron di turno la leadership nel proprio ex-oceano blu, il design italiano è oggi perdente di fronte alla solidità e all’innovazione tedesche, ad esempio. Peggio ancora: è messo alle corde dalla situazionalità del prodotto anglo-sassone e americano, come Fatboy o ad Hershel, brand meteora diversamente sexy rispetto ai nostri monoliti. Prodotti creati per assolvere la funzionalità che l’utente richiede senza fronzoli. È per questo che divengono iconici: perché scelti da gente cool, non progettati per gente cool. L’heritage di marca, il prestigio e il pedigree di un brand non bastano più. Rischiano di diventare zavorra sommergendoti di costi di stampa e di stampo, obbligandoti a sostenere una gamma di 50 prodotti mentre un’azienda come 24bottles, italianissima, ti soffia il mercato di una nicchia che conosce a menadito, quella delle bottiglie da passeggio. Cool e funzionale, senza troppe storie, senza troppa storia. Nei nuovi mercati siamo poco interessanti: il sistema paese non racconta il buon vino come i francesi, le tendenze di consumo sono oggi incasinate e agili, mentre noi siamo abituati alle collezioni di 7 anni in 7 anni, perché si sa, dobbiamo fare gli stampi.

Il controcanto arriva dal mondo dei pavimenti in legno: paradossalmente lì va meglio, a parità di Made In Italy. Perché? Perché la materia prima è più malleabile, il legno, ma soprattutto perché in quel settore non è il brand a guidare, il brand non c’è. A guidare sono l’influenzatore professionale e il caso di studio, la referenza da spendere. Ti scelgo perché ti ho visto a casa di quel mio amico, ti scelgo perché l’architetto mi ha detto che sei bravo. L’innovazione, in questo comparto, è una soluzione di sistema, non di marketing: il pavimento in legno che per la prima volta presenta parti sostituibili, risolvendo un problema. Questi elementi lo rendono un settore meno aperto alle incursioni dei competitor mondiali, un mondo dotato di anticorpi apparentemente efficaci. Si fa prima a comprare il pavimento in legno da queste parti. Quello che i rivenditori e i clienti B2B di questo parquettificio si aspettano sono soluzioni innovative e salti in avanti periodici lungo il processo di innovazione, senza sorprese, senza scossoni: solo consistenza e qualità. Il casalingo di design, invece, non esiste più, perché la gente mangia sul divano ed è contemporaneamente “foody e healthy” e quindi comprerà due prodotti per cavalcare il proprio peculiare, magari schizofrenico, stile di vita. Se ne fregherà del produttore, del brand, del materiale. Abbiamo fatto uno sbaglio: abbiamo voluto imporre il nostro prodotto e non abbiamo ascoltato il mercato. Perché abbiamo sempre fatto così.

Cosa ci portiamo a casa da queste due storie? Che il brand made in Italy e i suoi marchi storici non sono più da soli fonti di vantaggio competitivo. Anzi: se usati come schermo protettivo rischiano di inibire l’innovazione e l’ascolto del mercato.

Categorie: Storie

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