Nei banner all’ingresso di una delle due business school in cui insegniamo (non vi riveliamo quale) campeggia un titolo: “Innovators and Disruptors Welcome“. Questo semplice e simpatico slogan raccoglie tutto quello a cui Pensiero Industriale da ormai un paio d’anni si oppone. Non è tanto il benvenuto agli innovatori che ci mette a disagio, quanto più la smania di usare la parola ‘disruptors’ a caso, come sinonimo di sviluppo economico, progresso, futuro. Leggere i report e seguire i convegni di “esperti” (consulenti, accademici, futurologi) sulle tecnologie “disruptive” – dall’intelligenza artificiale alla blockchain, dai big data agli analytics – è come guardare una puntata di the Leftovers o di Waco: autoproclamati guru, genuinamente squinternati in alcuni casi, lucidamente avidi in altri, arringano i non convertiti e guidano i loro fedeli verso una Apocalisse più o meno salvifica. Mancano le tuniche bianche, ma è un attimo.

La tecnologia è spesso presentata con una retorica “mitologica”, quasi religiosa. Chi la racconta e chi la vende–spesso la stessa persona o una coppia ben assortita di gatto e volpe–invoca due cose:

  • l’inevitabilità del progresso tecnologico e la conseguente “disruption” che le tecnologie porteranno (l’avvento).
  • La fede nelle macchine: si badi bene, non fiducia (credere dopo aver provato), bensì fede (credere a occhi chiusi), pena l’oblio, l’esclusione da un mondo migliore (la beatitudine eterna vis-à-vis la dannazione per i peccati).

D’altronde: in periodi incerti e di crisi in cui la ragione sembra non dare una guida del tutto chiara e attendibile, a che cosa affidarsi? Come dire: se sei l’Inter e hai una storia fatta più di pene che di gioie, come fare se non affidarti mani, piedi e cuore al Cristo Antonio Conte?

Il ciclo dell’hype funziona così: il mondo della ricerca e dell’industria generano nuove macchine e software. Hanno potenziale e, in linea di principio, campi di applicazione tra i più vari. Problema: le applicazioni su carta sono una cosa, nella realtà un’altra. Il mondo è vario, capriccioso, fatto di gente che ti dà contro o che la pensa a modo suo: ogni impresa, persona, contesto può voler avvicinare la nuova tecnologia oppure resisterle strenuamente; potrebbe guardarla interessato ma essere incapace di usarla; potrebbe serenamente dire che, per quanto luccicante, è inutile e funziona meglio quel che c’era prima.

Ecco il problema: la tecnologia, di per sé, è neutra e soprattutto chi la riceve ne può sovvertire il senso, o addirittura rifiutarla, spesso a ragione. Tuttavia va venduta, diamine: c’è investimento dietro e una finanza impaziente. Entrano a questo punto gli evangelisti dell’avvento tecnologico: consulenza – compresi istituti di ricerca che alla consulenza rispondono – e accademia. Gli istituti di ricerca sono rapidissimi e bravissimi a generare due cose:

  • I numeri, nell’ordine dei gigamiliardi di dollari. Prendete un report a caso e vi dirà sempre che tra venti anni (circa), tal tecnologia varrà x migliaia di “billions”.
  • Gli scenari. Sono di solito di due tipi. Patinati da un lato–tecnologia luccicante, brillante, mondi belli e puliti; post-nucleari e spaventosi dall’altro: non adottate ‘ste cose? Penitenziagite! La disruption non è un pranzo di gala.

L’accademico, se va bene e trovi quello che ha letto due romanzi, costruisce il caso sottraendolo al push commerciale più sfrontato e gli dà una spolverata di citazioni colte o blabla metodologico tra “analisi sistematiche”, “scenari” e varie altre cose apparentemente rigorose ma della consistenza della gelatina. Piovono articoli, white paper, libri, e convegni, eventi, tavole rotonde (che poi tonde non sono mai, ma vedono gente seduta su cattedre dritte di fronte a schiere di boccaloni seduti a twittare). Da qualche anno, con pervicacia invidiabile, è l’ora della nuvola “industria 4.0”. Non di quella più utile alle nostre aziende che fanno pezzi e potrebbero farli meglio, più velocemente, con più alta qualità ed efficienza. No. Piuttosto quella dei “lotti di uno” fatti con le stampanti 3d, delle consegne a casa coi droni e, soprattutto, dei “modelli di business algoritmici” e dell’intelligenza artificiale, della data capitalization e chissà che altro. È pieno di eventi e report che provano a convincere aziende che gestiscono ancora i magazzini con Excel ad adottare avveniristiche soluzioni di intelligenza artificiale. E il paradosso più grande e pericoloso è che gli accademici (specie quelli che trovano casa nelle business school) di soluzioni tech testate e pronte all’uso non sanno quasi nulla.

Così non va. Non perché si auspichi, qui a Pensiero Industriale, di restare ancorati ad una popolazione di piccole imprese riottose e piene di alibi per non innovare. Piuttosto perché non si rende un buon servizio: se faccio tondini di ferro e mi parli delle soluzioni IA che usano Amazon, Netflix o Tesla mi sento fuori dalla partita e ho buon gioco a dirti che no, rimango fermo. Perché se mi provi a vendere complicate soluzioni per fare cose che fa pure whatsapp stai distraendo risorse da altri usi: la tecnologia è solo una delle voci su cui le nostre Pmi devono fare passi in avanti. Perché se mi vendi le tecnologie pensate e sviluppate su grandi realtà spesso high-tech mi generi casino in casa, mentre mi piacerebbe di più se ci impegnassimo insieme a capire davvero le specificità del fare business in comparti “normali” e in dimensioni piccole, “scalando” la tecnologia verso il basso, il piccolo, le aziende così come sono qui da noi. L’impresa eccezionale è essere normale: se possiamo arrogarci una certezza è quello di conoscere A13, A4 e tangenziale di Milano: dal Brenta a Castel Goffredo chi c’è l’ha fatta ha mixato export, innovazione, branding e competenze di prodotto. La tecnologia è olio sugli ingranaggi, un mezzo e non un fine. Tutte “banalità da anni 2000” che sembrano però non averci insegnato nulla. Il tipping point non sta e non starà nell’implementazione del machine learning, ma nell’uso dello stesso all’interno di una più ampia cornice. Ma qui, sul campo, negli “ex” distretti, mancano cornice, quadro, pennello e tempere.

Rinunciamo dunque alla partita? Tutt’altro. Va fatto però lo sforzo di impostarla in modo diverso. Primo: partiamo dalle esigenze e dalle specificità delle nostre imprese, non dai bisogni di chi vende o racconta tecnologia. Secondo: favoriamo l’integrazione nelle filiere, che queste tecnologie (come dicono “end-to-end”) hanno senso se scorrono dal design alla vendita e viceversa e prima di connettere server e computer serve far parlare persone. Terzo: facciamo conversare fornitori di tecnologie e Pmi. Per davvero: non per vendere, ma per co-progettare soluzioni e fare formazione in azienda. Da ultimo: non è la specifica tecnologia a generare valore, quanto la generazione di nuove idee, processi, modelli di business. Spesso le tecnologie banali, semplici, poco costose e non particolarmente adatte a convegni scintillanti affamati di glamour e colpi a effetto, funzionano e raggiungono lo scopo. Zoom negli ultimi mesi ci ha insegnato qualcosa.

Categorie: Pensieri

3 commenti

Gianluca · Ottobre 1, 2020 alle 8:25 am

Due cose al volo:
1. nell’articolo mi pare si sottovalutino le capacità delle imprese di distinguere tra “scenari”, “fuffa” e tecnologie che mi possono servire “oggi pomeriggio”, “domani mattina” e “tra una settimana”.
2. non ho ben capito quale dovrebbe essere il ruolo dell’accademico secondo l’autore di questo articolo, io credo che non debba fare il consulente o il venditore di tecnologie per PMI…

Redazione · Ottobre 1, 2020 alle 8:49 am

Le imprese sanno distinguere. Capita spesso, infatti, che abbandonino il tavolo, disorientate, sfiduciate o poco interessate. Si rischia però che non adottino anche quelle della settimana scorsa facendo così (Vedi DESI). Punto 2: exactly that. Neanche la stampella di chi la vende, almeno così ci pare.

Claudio · Ottobre 1, 2020 alle 2:36 pm

Manca un quarto punto: convincere gli investitori istituzionali a non cercare solo unicorni, ma anche startup industriali con scalabilità medio/bassa che generano posti di lavoro e benessere socio-economico di prossimità.
Altrimenti i guru continueranno a vendere fumose unicorniche teorie…

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