Il titolo di questo articolo avrebbe dovuto essere “riflessioni sul gender gap e la competitività” ma non l’avrebbe cliccato nessuno: di questi tempi anche per due strampalati accademici e un buffo imprenditore, distribution is queen.

Siamo irritati dal dibattito sul gender pay gap tra calciatori e calciatrici che ha tenuto banco durante i recenti mondiali femminili vinti dalla squadra USA. Siamo arrabbiati per il fatto che nessuno si è mai lamentato del fatto Gisele Bundchen e Kendall Jenner fatturano in due 50 milioni di dollari. Si legge su Cosmopolitan:

“Gran parte della fortuna è attribuibile non alle sfilate ma alle collaborazioni con grossi brand come Adidas”. Sean O’Pry, un uomo, guadagna 1,2 milioni di dollari; i primi 10 modelli del mondo ne guadagnano 8. Le prime 10 modelle del mondo ne guadagnano 83. È tempo di dare dignità di genere ai modelli!

Il problema è più complesso e risiede nella differenza tra saper fare e far sapere. Nonostante l’indiscusso hype mediatico generato dai mondiali femminili, è semplicemente impensabile che i numeri di una finale di Champion’s League siano solo avvicinabili. Per rimanere a un confronto sui soli numeri dei campionati mondiali: risulta che le calciatrici abbiano incassato il 13% del totale dei proventi televisivi del mondiale, mentre i calciatori il 9%, nonostante l’audience del mondiale maschile sia dalle 5 alle 6 volte superiore rispetto ai mondiali femminili. Il movimento sul gender gap ha assunto come propria bandiera il più sbagliato degli esempi: se è vero che nel marketing è inaccettabile che un direttore donna guadagni meno di un uomo, nel calcio siamo fuori strada.
CR7 ha permesso alla Juventus di assicurarsi i propri servigi non tanto per le indiscusse capacità calcistiche, ma perché è il miglior brand cui i bianconeri potevano affiancarsi per internazionalizzare la propria azienda. Che le pur forti azzurre, o brasiliane, debbano guadagnare come i maschietti suona poco più che una provocazione.

I casi sono due: o il calcio deve dare “il buon esempio”, ed è allora di mecenatismo che dobbiamo parlare, oppure parliamo di risultati. Perché su Facebook nessuno si lamenta nel monetizzare la reach, cioè il pubblico raggiunto? Semplicemente la componente di branding e audience potenziale del calcio femminile non è comparabile al circo mediatico maschile. Quindi questo prodotto costa meno.

Non è nostro compito o intenzione negare l’esistenza di un problema grande come una casa, quello delle differenze di genere, o affermare che il calcio non può essere la leva per hackerare un sistema malsano. Siamo però contro il politically correct a ogni costo: non è vero che siamo di fronte allo stesso spettacolo. E non lo diciamo da osservatori dei cross dalla fascia, ma da attenti analisti del volume di mercato di questo movimento.

Perché prendersela così tanto? Perché è dietro questo esempio che si nasconde in maniera nemmeno troppo velata il “fazionismo” verso cui il nostro mondo sta andando. Siamo tutti tifosi, ma nessuno dà un occhio a numeri e razionali di base. Se il calcio fosse un modo per affermare che tutti gli altri luoghi ove il gender è un problema vanno mappati e gestiti, beh: saremmo i primi a salire a bordo. Ma non chiedeteci di pagare lo stesso prezzo per uno spettacolo semplicemente diverso.

Categorie: Pensieri

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