Si è parlato tanto settimana scorsa della straordinaria alta marea che ha messo in ginocchio Venezia (da leggere Bassi sul NY Times). Come sempre, ed è comprensibile, si è scatenata la caccia al colpevole. C’è chi sta dalla parte dello stato contro le amministrazioni regionali e comunali degli ultimi anni; chi, come Michele Boldrin, a nostro avviso giustamente, punta il dito contro quarant’anni di ministri, direttori generali, burocrazie statali e magistrati alle acque che hanno cincischiato, perso tempo, giocato con la pelle dei veneziani.
Al di là della geografia della colpa, interessa sottolineare che c’è una linea sottile che collega le dichiarazioni dei politici veneti di questi giorni con il declino del modello del ‘paron’ veneto.
Pensateci: Galan nel 2008 declamava, dalla copertina di un libro apparentemente letto e apprezzato da tutta la classe dirigente del Veneto, “Il NordEst sono io”, raccontando apparentemente di come avrebbe rivoluzionato la politica nazionale a partire dalla sua terra. Come lui, esercitavano il ruolo del ‘paron’ veneto le amministrazioni che si sono avvicendate, quando decidevano di allocare a loro piacimento risorse destinate ad opere pubbliche; lo ha esercitato e lo esercita il ‘paron’ imprenditore veneto che pensa alla propria azienda come l’estensione del salotto di casa. E se l’azienda poi fallisce, è colpa delle tasse di Roma (che, certo, sono vergognosamente inique) e mai del figlio incapace, pigro e “fatto” di spritz e hugo come un cammello, o della mistress a cui ha affidato i social media. Se il Mose non si alza è colpa di Roma (vero), mai di un “NordEst sono io” che a Roma mai s’è davvero fatto sentire, contro le cui inefficienze mai davvero ha combattuto.
È la crisi del modello ora et labora, secondo cui basta lavorare duro che i risultati arrivano. Perché in fondo semo Veneti, nessuno qui ha paura di lavorare. Per quanto sia edificante vedere il nostro governatore con gli stivali che pulisce Venezia, avremmo preferito vederlo alle prese con il dashboard che alza e abbassa il Mose.
È purtroppo il lento declino del subfornitore da 10 milioni di fatturato. A volte 5, a volte 20. La Porsche in garage, la figlia al marketing o al commerciale estero ed il figlio alla Bocconi, sperando che porti per osmosi qualche idea nuova (anche se poi resta sempre un bocia). Quella Porsche però serve sempre più spesso per andare anche la domenica in azienda, perché i sabati non bastano più.
La teoria economica ed i corsi di management hanno davvero spremuto il concetto di oceano blu, ma è forse lì che la nostra regione ha trovato nel tempo, e non trova più, il proprio valore distintivo. Ci sono stati anni di prodotti sostanzialmente unici e mercati rigogliosi, poi tra offshoring e reshoring il prodotto è rimasto, il mercato un po’ meno. Oggi c’è una durissima verità che riguarda la manifattura nostrana, anche quella più industriale. Il prodotto rischia di diventare sempre più una commodity. Così come pensavamo che gli MMS avrebbero dominato il mercato e poi è arrivato whatsapp, così erano i cinesi a preoccuparci, ed il loro approccio low cost. E non abbiamo capito invece che sarebbero stati i tedeschi con la loro efficacia, i francesi con la loro capacità federante, gli americani con il loro bulk marketing a fare la differenza, a venirci a rubare in casa. O meglio, a introdurre nuovi modelli competitivi che spesso non abbiamo compreso perché troppo impegnati in fabbrica a produrre grandi manufatti. Oggi il gap che ci resta sul prodotto è solo di qualche punto e farlo percepire al cliente globale è un compito arduo.
È un compito che senza dubbio richiede investimenti in marketing, ci mancherebbe, ma che deve partire dalla consapevolezza che non esistono scorciatoie. Non saranno qualche migliaio di euro investiti in social media che ci consentiranno di toglierci la tuta da officina e metterci il cappellino da baseball per sembrare contemporanei. Serve rivedere interi modelli di business, a partire dagli organigrammi aziendali e dal ruolo del ‘paron’, che per quanto spesso non più all’altezza può e deve essere pensato come una risorsa. Come?
Non lo sappiamo con esattezza, però sappiamo una cosa: l’impresa veneta ha sempre odiato la cultura del management, celebrando lo stereotipo machista del ‘paron’. L’uomo che lavora duro e non chiede mai. Salvo poi sbagliare e fallire, ma tanto è colpa dei cinesi o di Roma ladrona. Hanno assunto i manager, ed hanno delegato loro delle finte responsabilità. Ma non gli è stato permesso di decidere, di toccare i cordoni della borsa. Perchè bisogna anche saper scegliere e coordinare i manager, non basta metterli là. Il ‘paron’ veneto è stato un bene per arrivare a 10 milioni. Lo step successivo però prevede di prendere in mano la siringa ed iniettare company nella family.
E siamo onestamente stanchissimi della retorica del supereroe. Perché non è vero neanche per un momento che “i veneti sono diversi” o che “si fanno su le maniche”. I polentoni del sud stanno costruendo accademie di web coding e immaginando un futuro, e Venezia vende le maschere? È sempre l’avere la pancia piena che non ti mette fame abbastanza per muoverti e cambiare la tua condizione. Il sordido Mose che langue è lo specchio dell’ennesimo bilancio che fa -7%, come il sindaco che ci mette la faccia in conferenza stampa è lo specchio di un gridare al lupo al lupo che non convince più nessuno. Sarà la managerialità a salvare le imprese così come sarà un approccio manageriale al problema a salvare le acque di Venezia. Ma poi, risolto un problema enorme da 7 miliardi (con la netta sensazione che non sarà così automatico il lieto fine), si sarà messo in sicurezza il contenitore. Da più parti si è gridato ad una nuova visione di Venezia, più internazionale e culturale nella propria proposta commerciale, un laboratorio a cielo aperto, a proprio modo “un maestro e non un artigiano”, una stella polare per le altre città e per questa nazione. Un problema di contenuti e contenitori che il paron veneto non potrà risolvere con l’unicità a cui non crede più nessuno, ma che risolverà a nostro avviso solo cercando e trovando quella scala ragionata che un approccio manageriale e industriale potrà garantirgli. Sono due sfide difficilissime da vincere, non sappiamo nemmeno quale lo sia di più.
Di una cosa però siamo certi: o si ripartirà da qui, o l’acqua salirà presto anche in pianura.
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