È una strana sensazione: c’è qualcosa per cui dovresti essere contento, eppure non ci riesci. Dovremmo essere soddisfatti di un’Italia che si scopre ossessionata dalla formazione (a giudicare dagli articoli di giornale, post e dichiarazioni di politici e industriali sugli ITS) ma qualcosa ci blocca. Gli ITS sono percorsi formativi di due anni post-diploma che mirano a formare dei “supertecnici” (va di moda dire così). Segnano l’entrata tardiva dell’Italia nella modernità della formazione post-secondaria, quella che prendiamo a modello ogni volta che parliamo delle Fachhochschulen tedesche (o meglio una loro versione interpretata ad arte: più dettagli tra poco). Gli ITS hanno una governance mista pubblico-privato: sono fondazioni di partecipazione che vedono scuole, università, imprese e loro associazioni unire i propri intenti per formare questi talenti. Si caratterizzano per un’aula molto “pratica”, metà del corpo docente proveniente dalle imprese, metà del percorso è svolto in azienda: si tratta di una sorta apprendistato dinamico e innovativo. Questi istituti in Italia sono 109 e istruiscono 18 mila studenti (meno del 2% degli iscritti a un percorso post-diploma). Per dare una proporzione, nel 2021 si sono immatricolati all’università dopo il diploma 337 mila studenti e sono 1 milione e 700 mila gli iscritti alle università, uno dei dati peggiori in Europa per penetrazione della formazione post-secondaria (27,7% della popolazione tra i 25 e 34 anni, peggio di Turchia, Repubblica Ceca, e 13 punti sotto la media europea).
Che cosa ci rende irrequieti? Non certo il successo degli ITS: queste scuole sono un esperimento riuscito e bene fa il ministro Bianchi a rimarcarlo. Che sia necessario consolidare il sistema ITS e farlo crescere è pacifico. Tuttavia i toni del dibattito sui giornali –e le uscite di addetti ai lavori con qualche interesse di bottega– sono fuorvianti. Il sospetto è che sia l’effetto del Pnrr che stanzia un miliardo e mezzo per questa filiera formativa: quelli che vogliono mettere le mani sulla borsa sono tanti, per cui è una guerra a chi canta più alto le lodi salvifiche degli istituti per i supertecnici e ne prefigura espansioni 10, 20X.
Andiamo per punti.
Primo: gli ITS occupano l’80% dei propri studenti, si dice. Altro che l’università (che se solo ci si prende la briga di vedere le statistiche, in quanto a occupazione, non fa poi così male). Ci mette a disagio questo usare i numeri come le clave, perché rischiano di illudere e disorientare i giovani che si accingono a scegliere come affrontare il proprio futuro. Innovare (la didattica) al margine, con numeri controllati, parecchie dispense rispetto ai vincoli della formazione terziaria e con una autonomia molto elevata è ben diverso dal costruire un sistema in grado di far uscire sul mercato del lavoro 180, 200 mila diplomati l’anno. Per usare un termine caro agli aziendalisti, scalare non è cosa facile, soprattutto se lo si prova a fare in ritardo –come prova a fare l’Italia– e con dei dispositivi di governance peculiari (le fondazioni di partecipazione e la forte dipendenza dagli obiettivi regionali che cambiano ogni due anni).
Secondo: l’essere “non universitari” è, apparentemente, un merito di questi percorsi. Finalmente, si dice, stiamo portando in Italia il sistema della formazione tecnica tedesco. Nel dibattito nostrano si parla spesso di una Germania edulcorata o piegata a narrazioni particolari. Le differenze tra il sistema tedesco e la vulgata che se ne dà da noi sono tantissime, ne consideriamo solo alcune qui. Le Fachhochschulen tedesche accolgono 880 mila studenti, il 37% degli studenti post-secondari del Paese. A rendere questa strada così attrattiva per i giovani tedeschi è senz’altro un elemento che nel dibattito nostrano sfuma, sennò viene meno la retorica della laurea inutile: le università di scienze applicate (così si chiamano) rilasciano titoli di bachelor (lauree di primo livello) e master (lauree specialistiche) equivalenti a quelle delle università generaliste. In un mercato dominato dalle credenziali è un elemento di non poco conto. Per chi avesse voglia di approfondire, sappiate che le università di scienze applicate sempre di più fanno ricerca e conferiscono –in via ancora eccezionale ma con una dinamica crescente– titoli di dottorato.
Terzo tema: siamo davvero sicuri che la ripresa del nostro Paese reclamerà supertecnici preparati dagli ITS? Siamo sicuri che, esauditi i fabbisogni della pattuglia di testa delle medie aziende che stanno animando l’esperimento ITS, le piccole e micro aziende possano prendere parte a questa sperimentazione con lo stesso carico di tempo, risorse e attenzione? A loro servirà davvero il supertecnico? O un bravo tecnico che potremmo formare rinforzando e rivedendo, dandole ossigeno, la istruzione tecnica e professionale secondaria? Da oltreoceano, in attesa di capire che accade, arrivano dei segnali da interpretare con cura: nel discorso di introduzione al “The American Jobs Plan” per rilanciare l’economia del Paese, Biden parla di un piano per una “blue-collar America” in cui il 90% dei lavori creati non richiederà una laurea e il 75% non richiederà un associate degree (un titolo che potremmo equiparare al diploma ITS).
A nostro avviso la lezione degli ITS è un’altra, ma fa forse poco comodo se si mira al bersaglio grosso. L’esperimento ITS ha insegnato che si può fare una didattica nuova, che si possono ingaggiare mondi apparentemente distanti –impresa e formazione. In verità, le università negli anni si sono comportate bene –forse non tutte, forse non sempre, ma tante e spesso– da questo punto di vista: project based learning, contamination lab, lauree professionali, partecipazione attiva delle imprese nei comitati di indirizzo dei corsi di laurea e molto altro ancora. Gli ITS sono, da questo punto di vista, un interessante plugin che, adeguatamente modellato, può rendere più efficace molte altre tipologie di formazione. Il rischio che vediamo nel contrapporre ITS e università è duplice: da una parte riversare su un esperimento –gli ITS– un entusiasmo e dei numeri che tale esperimento non potrà sostenere perché non riuscirà a diventare un sistema. Dall’altra, una profezia che si autoavvera sull’università: se avrà successo questa narrativa, le già presenti spinte allo splendido isolamento dell’accademia nostrana ne usciranno rinforzate, lasciandola a docenti e studenti fuori dal mondo e self-obsessed.
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