Possiamo chiamarlo elogio dell’abbastanza o, in termini più tecnici ‘economia del plateau’, ma il concetto che ci assilla da qualche tempo a questa parte è il medesimo: non abbiamo noi studiosi d’impresa forse perso la misura delle cose e soprattutto il senso delle metriche che distinguono un buon business (o investimento) da uno mediocre? Non abbiamo forse rinunciato troppo presto ad un modello di crescita organica e progressivo che sottende un’economia maggiormente equilibrata e che predichi il valore dell’abbastanza?
Ci spieghiamo. Viviamo nell’epoca delle eccellenze, del primo della classe, spesso un outlier che vive di un modello chiaro: the-winner-take-all. È il modello dei big del tech. Ma anche della musica e dello sport. C’è spazio solo per un Google, una Rihanna, un Tom Brady. Chi vince piglia tutto, gloria, market shares e profitti. La corsa all’oro è tracciata. Se fondi una nuova impresa, il tuo destino è segnato: raccogli capitale in fretta, scala il business e diventa il prossimo market leader. Il fine è quello di vendere (exit) o di quotarsi in borsa (IPO), in modo da ritornare il capitale investito agli investitori che hanno supportato i vari ‘round’ di aumento di capitale. Non c’e’ niente di intrinsecamente sbagliato in questo modello, ci mancherebbe. Ma secondo noi vanno chiariti alcuni punti, alcune istruzioni per l’uso:
- il modello delle cosiddette high-potential start up (HPSU) è un modello per pochi, pochissimi. Outlier, appunto, sui quali sarebbe sbagliato creare dei modelli generalizzabili ed estendibili alla società tout court
- è altresì un modello che poco si adatta alla nostra cultura economica e industriale, basata su innovazioni incrementali e silenziose e poco su invenzioni breakthrough come quelle disegnate dalla HPSU
- ci preoccupa infine la distribuzione del valore economico che tale modello sottende. La torta è per pochi e le barriere all’ingresso sono generalmente alte, spesso artificiosamente alte
Ma perché queste preoccupazioni? Perché siamo di fronte, ancora una volta, ad un modello carico di glamour che pochi si sono presi la briga di smontare criticamente e di applicarlo ad un contesto socio-economico reale e naturalmente multiforme. Nelle business school del mondo tuttavia oggi si insegna questo modello; i nostri studenti di imprenditoria ci parlano di ‘scalare’ e di ‘exit’ ancora prima di avere una vaga idea di come funzioni il mercato in cui competono. E ci dimentichiamo al contempo di una miriade di business innovativi e profittevoli che lavorano a fari spenti, generando valore economico, lavoro, benessere. Sono modelli di business che spesso ritroviamo nelle nostre PMI di successo. La ricetta spesso è la stessa: ossessione per il prodotto, profonda conoscenza del mercato di riferimento (spesso nicchie con considerevoli barriere tecniche/logistiche all’ingresso), legami personali con i clienti ‘big spender’. Certo, sono anche modelli carichi di complessità gestionale e spesso vulnerabili alla volatilità dei mercati contemporanei, ma questi sono argomenti che ci riserviamo di trattare in post futuri.
Gli economisti si sa, se la cantano. Ma qui è in gioco una partita più ampia, quella del rigurgito sociologico del lavoro pagato poco (lo dicono quei veneti che sanno fare sia i soldi che da mangiare), che è anche la partita dei sogni infranti. Master universitari e non fuori logica e fuori mercato, e narrazione ovunque. La narrazione del “puoi farcela”, del “fallisci ancora”. Vi raccontiamo in 3 punti elenco 3 storie “forse non sexy”, i cui bilanci però sono solidissimi, luoghi dove forse i nostri figli li vorremmo veder lavorare, luoghi che hanno bisogno di innovazione, digitale e management:
- Vaia è un amplificatore nato in panca all’università, un progetto “sostenibile davvero” che ci incuriosisce non poco
- Tubistyle veste le supercar del mondo con silenziatori e scarichi di livello assoluto
- Drive Flee è una startup nata in pancia all’assicurazione AON, è un modello interessante di noleggio “a valore aggiunto” che ha la fortuna di reggere sulle spalle di una grossa realtà e di poter contare su un team e su una tecnologia di primo ordine
È da aziende come queste che vorremmo ripartire. È di aziende come queste che vorremmo sentirvi parlare. Ben venga la exit di Depop, ma non può essere solo quello.
Per il momento ci preme far luce su una ‘maggioranza silenziosa’ che in molti casi da anni vive lungo un plateau che dovrebbe eventualmente portarli ad esaurire il proprio ciclo di vita. E invece il ciclo si prolunga di esercizio in esercizio, portandoci a riconsiderare l’idea che l’economia dei plateau sia necessariamente uno step che precede il declino di un’attività d’impresa. Sono diverse le imprese che frequentiamo e che potrebbero dare voce concreta a questo modello. Non sono pochi, non sono outlier. Semplicemente ci siamo dimenticati (l’abbiamo mai fatto?) di raccontarli. Noi crediamo invece che vadano raccontati e studiati con serietà e soprattutto con continuità. Ci hanno insegnato in questi anni il valore dell’abbastanza, il valore del pragmatismo, la durezza del fare impresa con mezzi propri e del crescere attraverso i risultati operativi. Perché di questa complessa equazione che ha come variabile dipendente il successo economico di un’impresa, di un territorio o di un paese, abbiamo capito una cosa: i trofei si sognano con i grandi campioni, ma tipicamente si vincono con i buoni giocatori.
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