Ogni 3-4 anni, ciclicamente, assistiamo alla diffusione di nuovi fenomeni pseudo-economici che tendono a dominare la scena mediatica per alcuni mesi per poi sparire nell’oblio. Molti di voi certamente ricorderanno l’ossessione dei media per le tecnologie afferenti a industry 4.0 che ci sono state proposte in svariate salse nel corso degli ultimi 2 anni; o ancora, qualche anno prima, come dimenticare il fenomeno dei makers, auto-produttori abilitati da camicie a quadri e stampanti 3D che promettevano di ridisegnare la scena urbana delle metropoli più hip del mondo. Di entrambi questi fenomeni troviamo poco oggi nell’economia e nella società che ci circonda. Le nuove parole chiave infatti sono economia circolare, sostenibilità, gender e pay gap. Tutti temi dignitosissimi, s’intenda, ma anche stavolta sentiamo puzza di sensazionalismo mediatico montato ad arte.
Il cortocircuito che s’innesta ormai segue uno schema consolidato:
- i media hanno bisogno disperato di ancorarsi a nuove parole pop per strappare un click e fare audience;
- qualche pseudo-scienziato (molti sono nostri ‘colleghi’ economisti) propone qualche nuovo e semplice concetto pronto all’uso;
- i media ricamano e montano un trend economico che trova tuttavia poco supporto nei dati e nelle evidenze empiriche a disposizione della comunità scientifica.
Perché, parliamoci chiaro, il problema e’ proprio questo. Non c’e’ nulla di male a sostenere che le startup o i FabLab cambieranno il tessuto produttivo Italiano, pero’ se ciò poi non accade (e se sono stati erogati fondi pubblici in questo senso), allora qualcuno dovrebbe fare un passo indietro e chiarire. E siccome ciò non accade, allora ci aspetteremmo fossero i media a chiedere lumi e ad adempiere alla funzione di dogwatcher a cui sono chiamati per loro natura. È un processo semplice ed elementare, conosciuto come accountability, che dovrebbe essere alla base di qualsiasi società vagamente civilizzata e responsabile. E invece accade il contrario. Dichiari qualcosa, gonfi una bolla (fatta di balle), la quale puntualmente si sgonfia facendo più o meno danni. Qualche problema? Zero. Si caccia la polvere sotto il tappeto e si riparte con un’altra storiella. E’ il mondo dello storytelling, ci diranno i nostri seguaci appassionati di marketing. Benissimo, iniziamo a smontarlo pezzo per pezzo.
Pensiero Industriale lo sostiene chiaramente nel proprio semplice manifesto: siamo contrari a qualsiasi fenomeno economico mainstream che non sia supportato da solide evidenze empiriche. E allora sentiamo il dovere di dirvi che industry 4.0 non ha cambiato alcuna industria italiana; semmai, aprendo il vaso di Pandora abbiamo scoperto che buona parte delle PMI italiane misconosce persino i più elementari degli strumenti tecnologico-digitali disponibili nel mercato. Gli artigiani e i microbirrifici di quartiere non hanno trasformato le periferie delle nostre città, ma sono interessanti movimenti folkloristici che al massimo sanno esprimere nuove tendenze di consumo. Guardano al presente più attuale, sentiamo la necessità di ricordare che 2/3 dell’inquinamento mondiale proviene da Cina e India e che abolire l’uso delle cannucce di plastica nei rooftop di Milano è un atto puramente ideologico. Proviamo genuina simpatia e ammirazione per Greta Thunberg ma siamo sbalorditi e preoccupati nel prendere atto che sia una giovane ragazza senza alcuna esperienza scientifica o professionale a tracciare la linea maestra per salvare il pianeta. I conti, tuttavia, sembrano poi tornare quando registriamo la sua partecipazione al forum economico di Davos, il che certifica in un certo senso l’ascesa del Greta-pensiero alla categoria mainstream. Il che ci tranquillizza.
L’aspetto maggiormente desolante del fenomeno mediatico che stiamo tentando di raccontarvi è il fatto che questo circo venga alimentato da accademici o presunti esperti, motivati il piu’ delle volte da ritorni personali (soldi, fama, notorietà). Proprio coloro che dovrebbero essere i custodi della scienza sono i primi a inquinarla attraverso il racconto di aneddoti estemporanei che con la scienza non hanno nulla a che fare. Ci piacerebbe tornare a parlare delle basi fondamentali del business e dell’economia, come la creazione del vantaggio competitivo aziendale, la vera stella polare di qualsiasi impresa in qualunque settore. Avvertiamo nelle imprese e negli imprenditori che frequentiamo un rinnovato e urgente bisogno di pragmatismo e di realismo e di ritornare ad affrontare i veri problemi che attanagliano chi oggi prova a fare impresa, come l’accesso a canali distributivi internazionali e il ritardo di competenze e skill in funzioni chiave come la ricerca e lo sviluppo. Perchè, come ci raccontava un imprenditore Peruviano titolare di una miniera d’oro nelle valli di Arequipa, il corporate social responsibility è un tema bellissimo, soprattutto se lo si affronta da monopolisti e senza particolari pressioni competitive.
Il rischio di apparire sempre come il cartone che rappresenta la morte e porta solo jella ci è ben noto, Pensiero Industriale palesa problemi, e di questo molti ci stanno dando merito. Dove sta la soluzione ad un problema di così ampio respiro? Purtroppo la nostra indole in cui nichilismo e pessimismo si stanno confermando in realtà essere solo realistiche osservazioni, ci porta a dire che la strada è complessa è difficile. Abbiamo però il compito di provarci, almeno perché stando ai dati se ogni anno perdiamo 150 mila italiani nel saldo nascite – morti, abbiamo ancora 255 anni davanti prima di estinguerci come nazione (wow!). Pensiamo ci siano 3 direttrici da seguire:
- Le nano-stelle polari come i paesi che diventano totalmente autosufficienti e carbon-free sono laboratori a cielo aperto da seguire, purtroppo però non è nell’autarchia produttiva che si realizza questo scenario, come a dire che se il cobalto per la batteria della tua Tesla arriva dal Congo, è normale che tu inquini meno del Congo
- Greta può anche aver suonato la sveglia, ma è in un tavolo di credibilità internazionale che deve giocarsi la partita di un altro modo di vivere il pianeta, anche perché ci sembra che Elon Musk non farà a tempo a portarci tutti su marte lasciando morire i wombato australiani sotto gli incendi
- Urge riportare alla base, quindi nell’educazione e nell’istruzione, il riconoscimento del valore del pensiero critico e analitico. È forse vero che le nuove generazioni lotteranno perché “il loro culo brucia più di quanto bruciava il nostro” (purtroppo in senso pratico), ma non è eliminando una bottiglia che elimineremo il problema
Ognuno di noi può fare molto ma l’approccio cosmetico ha rotto le scatole. Preferiamo arrivare ad una riunione programmatica con un diesel euro 4 e risolvere problemi, che farci stirare in monopattino dopo il terzo Negroni mentre il prossimo giaccone di ispirazione bucolica viene prodotto in Bangladesh. E chi lo sa come stanno in Bangladesh? E chi lo sa se fermano gli euro 4? Ah, tanto occhio non vede..
2 commenti
Alberico · Febbraio 27, 2020 alle 4:21 pm
Sono d’accordo su alcuni aspetti e in disaccordo su altri.
Sicuramente viviamo in un mondo drogato da fenomeni passeggeri in cui la principale preoccupazione di buona parte dei manager è la spasmodica ricerca di trend, per poi montarli ad arte come “next big thing”, parlarsi addosso per dire che si è i migliori in quel trend e alla prova dei fatti fare veramente poco.
Guardate lo stream di news di likedin. E’ ormai pieno di gente che si parla addosso e dice solo che la sua azienda è la migliore che c’è. Trovare un articolo che non sia autocelebrativo o una marchetta o una discussione che “aggiunga qualcosa” è ormai u’utopia.
La verità è che sono molto pochi quelli che prendono questi trend, li sviluppano a livello di strategie e poi cambiano processi e modello di business di conseguenza alla ricerca di un (nuovo) vantaggio competitivo. Perchè? Per due motivi:
E’ faticoso e richiede tempi lunghi. E’ molto più semplice mettere in piedi una campagna di comunicazione per raccontare storie mirabolanti per nascondere risultati “normali”
Non si è in grado di farlo. Però se il tuo amministratore delegato “sposa una causa” il corporte man medio fa di tutto per apparire paladino della causa (anche se il suo lavoro non centra nulla con la stessa).
La mia azienda si occupa di digital transformation applicata alla sostenibilità e all’innovazione.
Quindi mi trovo nel pieno di due “tempeste perfette”.
Purtroppo come è sotto gli occhi di tutti:
nonostante i mirabolanti racconti dei bilanci di sostenibilità di tutte le aziende non abbiamo ancora risolto né i problemi del climate change, né quelli socio-econnomici;
nonostante le millemila startup, programmi di open innnovation, startup competition e quant’altro non abbiamo neppure lontanamente sfiorato la 4 rivoluzione industriale.
Allo stesso modo però vi posso dire che “si può fare”. Ci sono aziende (tendenzialmente grandi) che a volte (solo a volte) riescono a superare il fossato del solo marketing per realizzare una vera trasformazione.
La vera, unica e triste constatazione è che sia in un caso che nell’altro è un “gioco” che si possono permettere solo le Grandi aziende. La sostenibilità (o l’open Innovation o qualunque altro trend a caso) non è ancora roba da PMI.
Soluzioni? Sposo quella del pensiero critico. E proverei a dargli spazio. Magari mettendo sempre più in luce quanto la realtà sia lontana da quanto ci raccontano.
Mauro · Marzo 24, 2020 alle 8:08 am
Non credo di essere un paladino fuori dal tempo, prono in modo acritico a Yunus e a Latouche. Ma il microcredito e le proposte di decrescita, oltre a studiare un fenomeno e mettere sotto i riflettori un problema, hanno fatto anche un’altra cosa: proposto soluzioni.
Perfettibili, certo, suscettibili di ogni critica costruttiva sostenuta da un sano cinismo.
Ma hanno messo sul piatto dei modelli, e proposto come farli funzionare.
Né più né meno rispetto a una sedicenne svedese priva di titoli accademici.
Gente che si è messa in gioco, è uscita dal loop della critica -sempre articolata, spesso sostenibile, ma che raramente esce dalla propria zona di sicurezza- ed ha giocato sul terreno della messa a terra idee innovative.
Ritengo che la critica debba essere seguita da una proposta, e la proposta significa mettersi in gioco, a nudo, esporsi alle beffe e alle contumelie. La proposta è costruttiva, generatrice di possibilità, ci consente di procedere per trials and errors, in un processo di crescita continuo, che coinvolge sempre più persone che provano a coordinarsi attorno a un’idea di progetto.
Le isole Kiribati stanno scomparendo, i ghiacciai si sciolgono e il divario tra ricchi e poveri aumenta sempre più. Vogliamo continuare a puntare il dito o tentare (sbagliando, certamente: ma, parafrasando Max Weber, nell’errore c’è una maggior porzione di futuro che nella stasi) a fare davvero qualcosa?