Da ieri pomeriggio, nei padiglioni in cui si vaccinano gli europei, si è ricominciato a usare il siero di Astra Zeneca. La durata dello scrutinio da parte delle autorità preposte (due giorni!), almeno a nostro avviso, prova con forza che non vi era bisogno di fare chissà quali calcoli o test: le morti di cui tanto si è scritto sarebbero con buonissima probabilità avvenute comunque. In fila in attesa del vaccino, al bar o in automobile. Al mondo muoiono 120 persone al minuto. Due al secondo. Nel mentre si stanno vaccinando circa 10 milioni di persone al giorno. La statistica fa il resto, ma contribuisce anche a spiegarlo: “correlation is not causation“. Ce lo hanno ripetuto a statistica uno, ma in tanti erano assenti evidentemente.
Gli europei, gli italiani, si sono spaventati. Molti, alla radio, sui giornali, nelle chiacchiere per strada, hanno ricominciato con le solfe su Big pharma e sugli esperimenti che si stanno svolgendo sulla nostra pelle. Molti daranno buca al loro appuntamento con la puntura che, se fatta in tempi brevi e a tappeto, potrebbe portarci fuori da quest’incubo.
La società ha perso fiducia nella scienza, si dirà. Vero, tuttavia nulla di nuovo. Schiere di scienziati li si è mandati al rogo; Ipazia, si temeva, «ingannò molte persone con stratagemmi satanici» e fu smembrata. I potenziali clienti di Ford chiedevano cavalli più veloci. Servono altri esempi? L’unica differenza tra gli scettici di ieri e quelli di oggi è questi ultimi fanno più ridere: dubitano dei vaccini e, probabilmente, sono più scolarizzati rispetto a quelli di qualche secolo fa.
Essendo noi del mestiere, non riusciamo tuttavia a non rammaricarci per l’occasione persa dalla scienza in questo frangente. Esattamente un anno fa, immagini di mezzi militari pieni di cadaveri colpivano duro un Paese senza guida: si apriva una finestra di opportunità con cui la scienza, rappresentadosi bene, avrebbe potuto legittimarsi e incrinare lo scetticismo di cui sopra. In realtà non ce l’ha fatta, come mostra Astra Zeneca, per vari motivi. Il primo è che per molto tempo la scienza –anche quella più “molle” come quella sociale, l’economia– si è arroccata in un suo mondo. Menti brillanti e giovani talenti si sono staccati dal mondo che da loro aspettava delle risposte, per discutere prevalentemente di affari loro su riviste loro con un gergo tutto loro incomprensibile ai più. Un altro pezzo di accademia, sconsolato da questo stato di cose o dedicatosi a carriere “collaterali” (consulenziali, politiche, parapolitiche) più redditizie dal punto di vista del denaro o della visibilità, ha rinunciato a presidiare proprio quel dibattito scientifico, pubblicando poco nelle sedi che contano (o quantomeno provandoci sempre meno). Rinunciando a cambiarlo, il gioco delle pubblicazioni scientifiche, si rischia di esacerbare questo distacco tra una torre d’avorio egoriferita che parla a se stessa e occupa le università scegliendo solamente i propri simili e un mondo che vorrebbe intellettuali e scienziati “ingaggiati”.
Un secondo motivo ha fatto mancare alla scienza un’opportunità importantissima: la sua auto-rappresentazione, la sua foga di prestarsi al teatro del dibattito pubblico italiano, forse alla ricerca di notorietà personale, forse alla ricerca di visibilità che consenta di accumulare finanziamenti, chi lo sa. Lo scivolone di ieri sulla nomina a membro dello stesso CTS di un personaggio “peculiare” è solo l’ultimo dei problemi, ci insinuano il dubbio che gli scienziati siano entrati e provino a giocare al gioco della politica. Perché viviamo in una società che crede sempre meno alla scienza? Forse (anche) perché stiamo finanziando attività scientifiche che poco s’interessano ai problemi che ci circondano e ancor meno si preoccupano di raccontare alla società civile ciò che fanno e perché lo fanno. In una parola, paghiamo un modello di scienza nella quale troppo poco si parla di responsabilità sociale e di accountability.
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