Nei giorni scorsi è stata ufficializzata l’adozione un nuovo framework per la riforma della tassazione globale e l’introduzione di un’aliquota di imposta minima del 15% da applicare alle grandi imprese (con fatturato minimo annuo di 890 milioni di dollari). Per chi non seguisse la questione, ricordiamo che fino ad oggi alcuni paesi quali l’Irlanda hanno beneficiato di una corporate tax al 12.5% per attirare investimenti stranieri da parte di grandi imprese (la questione è in realtà più complicata, ma proviamo a riassumerla così). Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che ha coordinato l’operazione, il nuovo impianto fiscale consentirà di recuperare circa 100 miliardi di dollari e porrà un freno alla leva fiscale con strumento di concorrenza sleale tra stati parte del club OCSE. E fin qui tutto bene.
Entrando più nel dettaglio, scopriamo che l’extra gettito fiscale recuperato attraverso tale manovra verrà distribuito tra i 130 paesi sottoscrittori del patto, tra cui ovviamente l’Italia. Come e con quali criteri verranno distribuiti gli ipotetici 100 miliardi di dollari non è ancora stato chiarito, ma è evidente già da ora che la quota pro capite destinata a ciascun paese non sposterà le finanze pubbliche di alcuno stato. Poco importa, sosterranno i tifosi di questo nuovo schema globale: ciò che conta è porre un freno al turbo capitalismo delle grandi multinazionali (specie quelle del tech) e limitare il free riding di Irlanda, Estonia e paesi simili. E va bene, basta non accontentarsi delle battaglie sui simboli.
Qui siamo stati spesso critici nei confronti delle multinazionali dell’internet economy e capiamo bene che l’idea di far pagare i grandi e cattivi player del tech sia un’idea che scaldi i cuori di molti, sia a destra che a sinistra. Crediamo tuttavia che l’introduzione di una global corporate tax al 15% sia una strategia miope e fuorviante. Ecco perché:
- Le tassazioni nate sulla spinta dei facili entusiasmi e dei furori temporanei (si veda la web tax) hanno raccolto molto in termini di consenso, ma molto, molto meno rispetto alle previsioni in termini di incasso;
- La nuova tassazione si applica sui fatturati (e non sugli utili!) e quindi va contro ogni logica di equità fiscale, dato che il fatturato aziendale non è un indicatore attendibile della capacità di un’impresa di generare gettito fiscale
- La global corporate tax non tiene conto del potere di mercato dei grandi player del tech e della possibilità (probabilità) di scaricare ‘a valle’ sui propri clienti (piccole e medie imprese che comprano pubblicità) il peso dell’extra tassazione
- Si perde, infine, una grande opportunità: quella di trattare con i player del tech e di creare dei circuiti di collaborazione tra le grandi imprese e i territori in cui queste hanno interessi economici. Probabilmente si irrigidiranno, nella peggiore delle ipotesi, o troveranno il sistema per girare intorno alla nuova asticella.
Detto in quattro parole: bene, ma non basta. È importante non accontentarsi di assecondare il pregiudizio –molto diffuso in Italia– per cui senza dubbio e senza eccezione le multinazionali giocano sporco e vanno punite. Non le difendiamo, ma crediamo anche che non si possa ignorarne l’importanza per l’innovazione e la competitività dei paesi in cui operano. Sarebbe utile, mentre si prendono decisioni dall’elevato valore simbolico, iniziare a ragionare di politiche per lo sviluppo economico e imprenditoriale, magari facendo leva proprio sulle grandi capacità delle multinazionali del tech di generare innovazione e valore aggiunto.
Piaccia o no, nell’economia globalizzata le multinazionali sono diventate dei formidabili propulsori di innovazione e sviluppo. Hanno la forza economica per far fronte a ingenti spese di ricerca e sviluppo, creano posti di lavoro altamente qualificati e attirano nei territori in cui operano talenti che se messi a sistema con il contesto su cui insistono, generano virtuosi processi di spillover (ne abbiamo scritto qui). Bene il 15%, ma non ci si compiaccia. La palla ora torna sul campo della politica e delle politiche che devono creare le condizioni per fare di più e meglio impresa, magari innovativa, valorizzando questi global player.
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