«È difficile/Resistere al Mercato amore mio». Cominciava così “Il liberismo ha i giorni contati” dei Baustelle. Sarà per fuggire all’inevitabile aridità dei numeri che condannano e comandano le imprese; sarà perché “il capitalismo” è necessario e inevitabile, e quindi, come continuavano i cantanti senesi, siamo alla continua ricerca di “rivoluzioni e vena artistica”; sarà quel che sarà, nel dibattito di ogni giorno, in quello dei tecnici, nelle università e nelle assise confindustriali celebriamo sempre la figura dell’innovatore geniale, ribelle, anche un po’ cazzaro. Che sia Steve Jobs che celebra l’LSD come anticamera del suo pensare “diverso” ai computer, o Renzo Rosso che va contro tutto, lava i jeans con la camomilla e li strofina sul ghiaino, ci piace leggere nelle trasformazioni dei mercati e nelle traiettorie dell’innovazione e della ricerca storie di underdog e personaggi eccentrici che si impongono in tutto il loro valore.
La realtà dell’innovazione, tuttavia, è molto meno libertina e freak. PNRR, Next generation EU, programmi quadro: è aperta la sarabanda della caccia di fondi per l’innovazione e la ricerca. In queste ore e nelle settimane scorse, foste passati per una università qualunque o negli uffici R&D di diverse imprese, avreste trovato personale pluridottorato intento a trovare la quadra su fogli excel, modulistica europea e ministeriale, timbri e cerelacche e tutto un sistema di form e controform, Gantt e WBS per portare a casa il bottino grosso, ossia progetti da qualche milione di euro. Interi mesi-uomo di professionisti della ricerca e dell’innovazione con RAL Che vanno dai 70 ai 100 mila euro, supportati da personale amministrativo con RAL dai 30 ai 50 mila, si sono dedicati alla progettazione e alla scrittura di documenti lunghissimi (dalle 45 alle 70 pagine) che verranno giudicati da revisori con RAL altrettanto se non più alti. Alla fine della giostra, si allocheranno i fondi necessari per fare innovazione.
Qualche numero: uno studio americano di qualche anno fa su un campione di studiosi di psicologia e astronomia stimò in un mese di lavoro a tempo pieno il carico di lavoro dedicato da un professore alla scrittura di un singolo grant (una proposta per competere per i fondi). Evidenze aneddotiche parlano di un 50% del tempo di lavoro investito nello scrivere progetti o amministrarli. Si consideri che ogni progetto è il risultato della collaborazione di più scienziati di più istituzioni. Analogamente, in Australia, un ricercatore dedica circa 34 giorni di lavoro a tempo pieno per scrivere dei documenti in cui fa delle promesse e cerca di vincere dei soldi necessari per condurre la propria ricerca innovativa. Con un tasso di accettazione che va dal 10% al 25%, è lampante che la quantità di ore (di lavoro, si legga “denaro pagato dal contribuente”) è enorme e appare come una dissipazione di energie e finanze con non pochi costi opportunità. Le università -e le aziende che partecipano a questa giostra– ovviamente spingono: i soldi sono necessari in tempi incerti e poi, diciamocelo, questi progetti coprono delle quote sostanziose di costi indiretti. Il sistema degli incentivi fa inoltre leva sulle ambizioni di carriera del personale accademico: nella corsa alla vetta, il ricercatore che si aggiudica finanziamenti esterni aumenta esponenzialmente le proprie possibilità di far carriera. Eppure, non possiamo non riconoscere di essere di fronte ad un processo di generazione di innovazione ingessato e inefficiente.
Il problema, alla base, è semplice: crescono le bocche da sfamare, diminuiscono i fondi per la ricerca e l’innovazione. Chiunque abbia mandato in valutazione un progetto europeo avrà avuto esperienza nella sua vita di un giudizio “positivo” ma ahinoi non sufficiente a ottenere i denari: troppo pochi rispetto alla qualità e alla quantità delle proposte. La macchina che seleziona alza la durezza dello Squid Game, diventa complessa e richiede progetti elefantiaci degni dei migliori piani sovietici; gli innovatori si ingegnano a loro volta per saltare tanto in alto quanto è richiesto da chi li valuta. Ogni buon progetto europeo richiede di argomentare sull’eccellenza della proposta (sì: si comincia con la sezione “excellence”), di prevedere i rischi che il progetto potrà incontrare e fare una lista dettagliata delle soluzioni che il gruppo di ricerca attiverà al verificarsi di questi accidenti (un esercizio di divinazione degno dei migliori aruspici). Pagine e pagine vanno scritte su quali concreti impatti avrà il progetto sull’economia, sulla società, sul sapere e sulla parità di genere (sì, è sempre presente). A rigor di logica, parlando di innovazione, si dovrebbe vagamente intuire un futuro e promettere di esplorarlo, ma no: qua va scritto tutto e sceneggiato inquadratura dopo inquadratura.
Tutte informazioni da elaborare e fornire ex ante, mentre una volta ottenuti i fondi vi sono pochissime metriche per controllare il valore prodotto. Il che ovviamente non incentiva l’accountability di chi scrive i progetti, nè garantisce che gli investimenti vengano effettivamente impiegati in attività di ricerca produttive.
Non basta: sono elementi premiali in questi processi l’aver vinto già progetti simili in passato, generando così inerzie e disincentivando il rischio. Poi c’è la geopolitica del bando europeo: serve sempre avere un partner tedesco perché “è politicamente importante”, uno del sud Europa, uno dell’est e uno dell’Ovest, come se l’innovazione fosse proporzionalmente distribuita nelle NUTS europee. Insomma, si cerca di imporre una vaga idea di equity (distribuzione dei fondi) più che di lavorare sull’equality (accesso equo garantito a tutti i partecipanti).
Il meccanismo rischia di presentare costi non indifferenti. Un diluvio di ore lavoro perse inevitabilmente, un processo di valutazione che non necessariamente premia le proposte migliori, una standardizzazione dei percorsi di ricerca che scappano dal rischio per vestire a nuovo strade già esplorate con le loro certezze.
Che fare?
- Una risposta, semplice tanto quanto irrealizzabile, sarebbe quella di aumentare considerevolmente i fondi per la ricerca di base ed esplorativa. Così facendo la competizione per i fondi stessi diminuirebbe e diminuirebbe la perdita di tempo nel confezionare narrazioni che sono diventate pezzi di un genere letterario vero e proprio.
- Un secondo modo per ridurre la sproporzione tra applicant e fondi sarebbe quella di ridurre il numero di “ricercatori” e innovatori: già 10 anni fa Nature riteneva che l’università mondiale stesse producendo troppi dottorandi/aspiranti ricercatori.
- Altri, che ci stanno simpatici perché sparigliano le carte, suggeriscono di distribuire i fondi per la ricerca e l’innovazione con una lotteria: dei valutatori dovrebbero leggere delle proposte di progetto molto semplici e semplificate e separare l’immondizia da quelle meritevoli. Dopo di che una lotteria premierebbe alcune tra queste su basi del tutto casuali. Certo: sarebbe una nemesi per i soldati della meritocrazia, ma, come documentano molte analisi, anche i sistemi peer-review apparentemente “meritocratici” hanno parecchie falle quando si tratta di premiare l’eccellenza e produrre effetti socialmente positivi.
- C’è chi infine si è spinto a proporre l’allocazione dei fondi sulla base del cv e di progetti lunghi una (1!) pagina.
L’ingegneria istituzionale è cosa complessa e non ci sta in un post. All’alba delle allocazioni di ingenti budget di ricerca, sia in Europa con i programmi quadro che in Italia con il PNRR e gli imminenti bandi per le iniziative dei campioni nazionali, degli ecosistemi innovativi e dei partenariati estesi, ci preme esprimere una speranza: qualsiasi sia la forma adottata, si torni a premiare la curiosità e a sostenere chi affronta strade rischiose, cancellando buona parte del red tape che inibisce quella creatività e sperimentazione che sono alla base di molte innovazioni di valore. Magari rivoluzione e vena artistica no, ma neanche iper-burocratici esercizi di stile su Word e cosmetiche competizioni che fanno bruciare tempo e risorse e poco fanno per incentivare processi di innovazione dal basso.
Credits immagine: Baustelle, Amen
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