Sta facendo scalpore in questi giorni il libro del fondatore di Netflix, “l’unica regola è che non ci sono regole”, una sorta di manifesto della “cultura Netflix”. Tema del libro è il “purpose”, una parola apparentemente facile da tradurre in italiano ma non libera da pieghe sottili: significa “la ragione più profonda”. Fuori dal dizionario, il libro di Reed, come altri prima di questo (ne avevano già parlato il fondatore di Zappos e Tomas Barazza di H-Farm. L’idea di fondo di questi e altri contributi è che si vada verso un mondo in cui il lavoro è sostanzialmente diverso da prima: le persone lavorano alla ricerca di obiettivi “altri” e “grandi” rispetto alla semplice necessità di scambiare opera per denaro. L’economia del purpose, chiaramente, comanda nuove organizzazioni e nuovi modi di far stare insieme le persone e di lavorare.
Se si guarda ad aziende come Netflix, Amazon e altre, viene naturale pensare al connubio tra eccellenza in alcune competenze operative (l’analisi dei dati nel primo caso, la logistica nel secondo) accoppiata a un nuovo modo di trattare i dipendenti: cultura condivisa contro controllo; soddisfazione ed espressione della creatività individuale contro gerarchia e ordini; auto organizzazione e indipendenza contro 9-5. Spesso la realtà non combacia con queste aspettative, come è chiaro nel caso di Amazon, business molto people intensive in cui la buona riuscita di innovazioni di prodotto e processo si sposano con politiche di gestione del personale –soprattutto di quello più operativo– spesso discusse.
Il tema è interessante se guardato dalla prospettiva di chi sta in Italia e prova a costruire qualche cosa che somigli a un ecosistema innovativo e digitale nel nostro Paese. Spesso la retorica Usa viene piegata a casa nostra a coprire, a mo’ di coperta un po’ corta, delle mancanze. Ragionare di purpose da noi significa non ignorare la questione dei differenziali salariali: mentre negli Usa e negli ecosistemi del digitale d’oltreoceano è tutt’altro che raro trovare ingegneri che prendono mezzo milione di dollari l’anno, da noi il giovane talento entra in un sistema che paga 1300 euro al mese. Più progredisce, più spera, ma non sempre è accontentato, di veder salire i numeri in busta paga, oltre che essere felice la mattina di occupare una scrivania da cui cambierà il mondo.
L’altra arma che rimane, quindi, per importare il purpose qui da noi, è quella dei benefit. Non tanto o non solo l’auto aziendale o l’assicurazione e l’iscrizione in palestra: la possibilità di essere padroni del proprio tempo, di organizzarsi e lavorare da dove si vuole, di diventare free agent che lavorano da distante e si prendono mini-pensionamenti 2 volte l’anno è diventata un argomento dibattutissimo, soprattutto che dopo lo smart-working in salsa lock-down ha imposto di ragionare diversamente su spazi e tempi di lavoro. Le ferie illimitate, insomma. Ragioniamoci: quante persone passeranno davvero 6 mesi alle Hawaii o a Matera tra i Sassi ritrovandosi con un lavoro confermato l’anno successivo? Quanti manager ci passeranno magari 3 giorni, senza guardare la mail? Siamo a nostro parere di fronte alla gabbia dorata della responsabilità in loco del controllo. Ma in questo caso la salsa fa la differenza.
Questo approccio, in salsa etica, porta davvero a pensare e guidare aziende pregne di cultura, in cui le persone “mettono una maglia” (non tutte, non sempre) e perseguono un obiettivo comune. Senza questo passaggio si è di fronte ad una dissennata e feroce meritocrazia drogata da condizioni di partenza inique (se sei il capo dell’unità avrai più libertà di chi ti sta sotto) in cui il bottone rosso con scritto “exit” è sempre sulla scrivania. Ferie illimitate dunque, ma con uno più bravo di te che sgomita per fotterti un posto d’oro, e chi ci va in ferie? Sarebbe davvero interessante misurare i giorni medi di ferie di un’azienda “a ferie comandate” contro quelli effettivamente fatti da un’azienda “a ferie illimitate”.
Noi di Pensiero Industriale vogliamo mettere in guardia dalla “rumba” che può scatenarsi togliendo le briglie. È nel disinteresse del dipendente stesso ambire a soluzioni di questo tipo, perché è nel rapporto tra casa e lavoro che risiede il benessere psicofisico. Quando questo rapporto non è misurabile perché il confine non esiste più la soglia di pericolo cresce moltissimo.
Viviamo all’interno di un sistema in cui l’eccellenza è strapagata e le figure di media competenza faticano sempre di più a fare una vita discreta. Travestire da cultura aziendale il marketing necessario per continuare ad attrarre talenti è esattamente come chiedere ad un automobilista di comprare una macchina non per la qualità del prodotto ma per la bellezza dello spot che la promuove. Dobbiamo forzatamente tornare a legare la narrazione al prodotto, l’allure al day by day. Ed anche se le ferie saranno comandate, l’onestà di fondo potrà portarci più lontano.
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