La realizzazione del nuovo ponte San Giorgio a Genova, in sostituzione del viadotto Morandi, ha riaperto la querelle sulla gestione di ASPI, il più importante concessionario di autostrade in Italia. Il possibile disimpegno da tale gestione della famiglia Benetton, che attraverso Atlantia controlla l’80% di ASPI, pone in realtà una questione centrale anche per il capitalismo del Nord-Est. Se infatti negli anni ’80 e ’90 si è affermato un nucleo forte di imprenditori che ha rinnovato profondamente l’industria del Made in Italy – Benetton e Rosso con Diesel, Del Vecchio con Luxottica, Polegato con Geox – negli ultimi dieci anni abbiamo invece assistito a un progressivo spostamento dei nostri modelli imprenditoriali verso i mercati finanziari.
Benetton rappresenta in questo senso il caso di maggior interesse. Dopo essersi diffuso nel mondo attraverso una serie di brillanti innovazioni in ambito di sviluppo prodotto, logistico-distributivo e di comunicazione, il gruppo di Treviso ha inizialmente rinunciato alla qualificata rete di fornitori locali per una produzione gestita su scala globale, e differenziando in seguito il proprio portafoglio di attività in una serie di business “estrattivi”, come appunto la gestione di autostrade. Il progressivo allontanamento di Benetton da investimenti a supporto di attività produttive locali rischia di compromettere il patrimonio imprenditoriale ed innovativo che ha per anni caratterizzato il modello industriale del Veneto. Perciò, serve oggi più che mai una nuova classe di “maker”, che non per forza ci riconduca a un’idea nostalgica di manifattura, ma che semmai recuperi il codice sorgente maturato nella seconda metà del ‘900 e lo riadatti a nuove attività ad alto valore aggiunto. Dagli stessi Benetton a Pinarello, da Stevanato a Veronesi, passando per i numerosi distretti industriali ancora attivi e aperti al mondo, non mancano nel Nord-Est le competenze distintive da cui far ripartire un modello di sviluppo imprenditoriale. Tuttavia, un nuovo capitalismo non può crescere solo all’interno delle aziende, ma avrà bisogno di un ecosistema innovativo che è essenzialmente una risorsa collettiva.
Sul tema dell’ecosistema innovativo vanno spese due parole. Ha recentemente fatto specie un post dell’ormai “web star” Enrico Mentana che lamentava l’anzianità dei progetti imprenditoriali (e degli imprenditori) italiani a confronto delle controparti USA, da Elon Musk a Jeff Bezos. Non ci sentiamo di sposare in toto la retorica del “mancano le startup”. Non siamo, e non saremo un paese per startup. Pensiero Industriale ha osservato e raccontato modelli alternativi molto interessanti (contract innovator, startup plugin), ma non sarà finanziando a pioggia giovani rampanti che si farà l’innovazione italiana in salsa USA. Rischia di essere un bias non da poco.
Investire invece in “beni comuni industriali” del territorio dovrà diventare una priorità nella prossima agenda industriale per il Veneto. A partire dalla valorizzazione di università, scuole e centri di formazione che sappiano legare le tradizionali competenze industriali con le nuove sfide delle tecnologie digitali, dell’economia circolare e dei mercati globali. È proprio nella definizione di un nuovo patto tra pubblico e privato che dipenderà una parte rilevante della competitività futura dell’economia del Nord-Est.
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