L’Italia è una Repubblica fondata sulle piccole imprese artigiane e sulle produzioni a tiratura limitata. Ce lo suggeriscono i numeri. Sono 822 infatti le produzioni tipiche italiane protette attraverso marchi di denominazione di origine (in Francia, secondo paese Europeo, sono 226 per capirci); mentre operano nel territorio nazionale 319 mila micro-imprese con meno di 9 addetti (qui siamo secondi nel club dei paesi OECD dietro alla Turchia, ma abbiamo il primato europeo davanti a Francia e Germania). Quindi realizziamo un numero cospicuo di prodotti che solo noi (alcuni di noi) siamo autorizzati a produrre e lo facciamo principalmente attraverso micro e piccoli produttori. L’impresa stereotipo di questo modello è la bottega artigiana, ultimo baluardo di un sistema produttivo romantico ancorato a logiche economiche reazionarie che rifiutano i fundamentals del capitalismo contemporaneo.

L’artigianato inteso come ‘ben fatto’, ‘handmade’, ‘fatto su misura’ è un elemento pervasivo nel nostro sistema sociale ed economico. L’artigianato definisce in larga misura chi siamo come popolo: piccoli produttori, spesso individualisti, orientati alle produzioni di qualità ma su piccola scala. Ossia pochi pezzi, talvolta unici, tipicamente fatti a mano attraverso conoscenza di fatto non codificabile e quindi difficilmente replicabile. Tutto bello? Forse, si. Anzi, probabilmente no. Tutto bello fintanto che l’artigianato e la pletora di artigiani che operano in bottega lungo la nostra penisola rappresentano un elemento fondante e caratteristico del nostro repertorio artistico e folkloristico. Tutto molto meno bello se crediamo che la seconda manifattura d’Europa possa continuare (tornare) a crescere attraverso il ‘fatto su misura’ e il pezzo unico.

Il problema di fondo nasce dal rifiuto dogmatico delle economie di scala. Le abbiamo studiate e imparate per anni nei manuali di management all’università e all’improvviso ci dicono che no, è tutto da buttare. L’antitesi artigiano vs. economia fordista (o economie di scala) è una semplificazione (o forse sarebbe più appropriato parlare di mistificazione) della complessa realtà economica che ci circonda. Siccome la produzione su scala dev’essere per forza Foxconn o Nestlè, sostengono i fautori del nuovo pensiero artigiano, allora l’alternativa non può che essere l’umanesimo artigiano italiano con la sua alta qualità, l’ossessiva cura dei dettagli e le produzioni a tiratura limitata. E un certo snobismo all’Italiana, aggiungiamo noi. Le economie di scala, tuttavia, consentono alle imprese che le raggiungono di godere di costi marginali decrescenti e, in genere, di incrementi di produttività.

Ecco, appunto, la produttività. Questo è il primo grande equivoco dell’economia artigiana italiana. La vexata quaestio della decrescita dell’economia italiana; il problema su cui perfino premi Nobel come Paul Krugman faticano a trovarci la quadra. Produrre pezzi unici, squisitamente tailor made, ha dei costi sulla prima unità altissimi. E siccome la produzione seriale sulla prima unità è il demonio, allora goodbye ai costi marginali decrescenti e ad incrementi di produttività. E saluti, ovviamente, anche alla crescita dimensionale delle imprese e quindi alla creazione di posti di lavoro e agli investimenti in R&D. Tutte cose che lasciamo alle multinazionali rapaci e footloose. Quelle che fanno le produzioni in serie, che poi noi ovviamente compriamo. Perché si potrà mica vivere solo di abiti sartoriali, formaggi di malga e birre artigianali?

Il secondo grande equivoco riguarda la qualità delle produzioni artigianali. Uno dei messaggi chiave proposto da chi sostiene il nuovo Rinascimento artigiano è l’idea che la qualità di prodotto e dell’esperienza di consumo risieda esclusivamente nelle sapienti mani di alcuni dedicati artigiani. Il fatto in serie non solo non è cool, ma è anche probabilmente sinonimo di qualità inferiore. È più probabile, infatti, che il contrario sia vero. Le produzioni seriali, per quanto standardizzate e omogeneizzate, si reggono su architetture produttive nelle quali il controllo della qualità avviene a più step lungo la filiera produttiva. A Pordenone si racconta che gli standard qualitativi imposti da Ikea negli ultimi anni abbiamo cambiato profondamente le regole del gioco. La qualità di prodotto, in aggiunta, è spesso funzione di investimenti in R&D. Qualcuno forse dubiterebbe della qualità dei prodotti Made in Germany? Eppure, Bosch, BMW e Bulthaup producono principalmente in serie o tutt’al più attraverso logiche di mass customization.

L’artigianato italiano deve scalare. E per farlo deve accettare il naturale trade-off che esiste tra unicità di prodotto e volumi. Ciò non significa rinunciare in blocco alle competenze artigianali di cui siamo fortunatamente dotati; semmai, ci riconduce al bisogno di pensare a modelli ibridi che accettino di fare versioning di prodotto sulla prima unità (industria della moda italiana, anyone?). Industrializzare l’artigianato. O morire con questo.

Categorie: Modelli

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