I giorni che hanno seguito la pubblicazione del post sulla lezione del blocco della portacontainer di Evergreen nel Canale di Suez ci hanno offerto diversi spunti di riflessione. Principalmente alimentati dagli acuti commenti di amici e lettori di questo blog, i pensieri a cui ci siamo dedicati dal day after dell’episodio di Suez si potrebbero raggruppare in due macro categorie:
1) come si è arrivati fin qui? Quali sono stati gli step che hanno portato le economie occidentali a essere inestricabilmente legate al sistema industriale cinese?;
2) quali soluzioni possiamo adottare per diventare meno dipendenti dalla grande fabbrica del mondo?
Consapevoli che entrambi i quesiti meriterebbero una trattazione più ampia e articolata di un post, abbiamo deciso di non sottrarci alla sfida e di attaccare il primo dei due quesiti. Il secondo, nonostante possa forse interessare maggiormente chi è di natura portato a guardare al futuro, è oggi in realtà oggetto di discussione in svariati media italiani e internazionali e dunque ampiamente coperto e dibattuto. Peraltro, delle sorti della globalizzazione parlammo anche noi circa un anno fa quando iniziava a prendere corpo il fronte anti-globalizzazione scatenato dalla diffusione globale del virus che oggi tanto conosciamo.
E dunque perché vale la pena interrogarsi sulle cause che ci hanno condotto fin qui? Da una parte, potremmo argomentare, perché la lettura della storia ci consente di comprendere il presente e di interpretare il futuro; dall’altro, più pragmaticamente, perché crediamo che molte delle scelte che sono state fatte negli ultimi vent’anni in tema di liberalizzazione dell’economia globale noi le rifaremmo ancora. Andiamo per ordine: la globalizzazione è sempre esistita (per una efficace sintesi di questo complesso tema consigliamo una lettura sempre attuale) ma è innegabile che l’ultima ‘globalization wave‘ è stata per molti versi maggiormente impattante delle precedenti. Stiamo parlando della globalizzazione che inizia nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino e che dopo decenni rimette in collegamento la parte Occidentale con la parte Orientale del mondo. Il decennio che segue, che culminerà nel 2001 con lo storico ingresso della Cina nel World Trade Organization (WTO), è un periodo segnato da una forte spinta politica all’integrazione commerciale globale: prende corpo nel Vecchio Continente l’idea di un’Europa unita, mentre nel Continente Americano nel 1995 l’amministrazione Clinton sigla il North American Free Trade Agreement (NAFTA), aprendo in questo modo una stagione di intensa delocalizzazione da parte delle imprese americani verso il Messico.
La teoria di David Ricardo sui vantaggi comparati rappresentava il modo migliore di guardare il mondo e di fare delle scelte –politiche e industriali– guardando al mappamondo. Diceva Ricardo che due paesi che si specializzano in ciò che sanno fare meglio (tecnicamente, nella produzione/industria dove hanno un vantaggio comparato, quindi di produttività), avranno un incentivo ad aprirsi ad un commercio tra di loro cosi da monetizzare la propria efficienza e importare l’efficienza altrui.
Ricardiane sono state le imprese, soprattutto quando il mondo diventava piatto: la delocalizzazione della produzione in zone del mondo caratterizzate da un minor costo del lavoro diventò la traiettoria di sviluppo del capitalismo maturo. Dagli Stati Uniti si andava in Messico e in Cina, dall’Europa Occidentale verso quella Orientale e in seguito in Asia e in Nord Africa. Lo facemmo anche noi italiani, spostando una parte delle nostre produzioni tradizionali dalla Puglia all’Albania (il distretto calzaturiero di Casarano) e dal Veneto alla Romania (il tessile trevigiano e la scarpa sportiva di Montebelluna a Timisoara), per citare solo qualche esempio. Aldilà della retorica di un mondo globale integrato e prosperoso, le nostre imprese spostarono la produzione all’estero in cerca di maggior efficienza (riduzione dei costi produttivi). E lo fecero seguendo quella che in seguito venne chiamata ‘low road‘, ossia la strada semplice, la scorciatoia. Si smontava la filiera produttiva locale e la si assegnava a partner produttivi low cost. Negli Stati Uniti, dove la strategia dell’offshore outsourcing diventa il nuovo mantra del management moderno, si smantellano industrie su industrie nel nome dell’efficienza e del progresso. Si, perché è spesso nel dettaglio che si nasconde il diavolo. E il dettaglio in questo caso è dato dalla visione naive del mondo economico a stelle e strisce che crede nella magia del libero mercato e nella capacità di questo di allocare le risorse in maniera efficiente.
Il problema è questo: il management cade vittima di una visone short-term, dove il recupero di efficienza nell’immediato periodo non viene messo in relazione alla perdita di competitività nel medio-lungo periodo. Se ne accorgeranno tuttavia in seguito, quando diventerà evidente che una parte rilevante dell’innovazione è legata all’esercizio delle attività di produzione e trasformazione (per un approfondimento sul tema vi rimandiamo a un nostro lavoro di qualche anno fa). L’economia, da par suo, è chiamata ad affrontare un altro importante problema: la perdita di lavoro per centinaia di migliaia di operai rimpiazzati dai loro pari in Vietnam, Messico e Romania. E come risponde l’economia mainstream a questo problema? Sostenendo che attraverso lo spostamento di funzioni ‘povere’ all’estero (leggi produzione), si apriranno nuove opportunità per i lavoratori americani i quali, attraverso un percorso di riqualificazione professionale, potranno dedicarsi alla logistica, al marketing e alle vendite. Non solo tale profezia non si è avverata, ma ha contributo a rendere miope un’intera classe politica rispetto al progressivo impoverimento della classe media occidentale. Fino all’arrivo di Trump, Brexit e del populismo europeo di questi ultimi anni.
Quindi tutto da buttare? No, anzi. Come in tutti i fenomeni socio-economici complessi, non esistono soluzioni facili e prive di compromessi. In questo caso il compromesso (il trade off, per dirlo in termini economici) riguarda in realtà non solo noi, ma il mondo intero. Partiamo da noi, occidentali: la globalizzazione ha reso la maggior parte di noi più liberi (possiamo scegliere) e più benestanti (paghiamo meno tantissime cose e il nostro potere d’acquisto è aumentato). Certo, molte persone hanno pagato un prezzo alto. Ma le statistiche ci dicono che i winner sono molti più dei loser, solo che questi ultimi fanno più rumore. E il ‘Sud del Mondo’? Si stima che siano circa 2 miliardi le persone che sono uscite dalla povertà grazie alla globalizzazione negli ultimi trent’anni. Anche i qui, i costi sociali e ambientali sono spesso molto alti, ma è innegabile che se il Vietnam è oggi una delle economie a maggior tasso di crescita al mondo è perché si è integrato nelle catene globali del valore. E prima del Vietnam, è accaduto a Taiwan, la Corea del Sud, la Cina, la Turchia e il Costa Rica. Insomma, i benefici derivanti dall’ultima globalizzazione hanno coinvolto persone e imprese spesso a noi lontane, che oggi molti di noi guardano con un certo antagonismo. Potremmo tornare al ‘fatto in Italia’ o al ‘KM zero’ e dimenticarci dei tanti nomi esotici a cui ci siamo abituati nell’ultimo decennio. Dovremmo anche però rinunciare ad un pezzo della nostra libertà e del nostro benessere. E non siamo convinti che molti di noi siano disposti a farlo.
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